«Venti, trent’anni fa con un salario potevi farcela. Oggi è diventato impossibile, tutto costa moltissimo, il cibo, gli alloggi, nel rifugio per i senzatetto ci sono anche giovanissimi, ragazzi che hanno meno di 18 anni, studenti, lavoratori». L’uomo è uno di loro, vive anche lui per strada, uno dei tanti «sottoproletari» dell’America oggi, bianchi o african american, poco importa, le loro storie si somigliano tutte, raccontano marginalità, miseria, violenze, galera, abusi, un orizzonte che non lascia vie di fuga.

I Pay for Your Story è il nuovo film di Lech Kowalski in concorso a Visions du Réel, il festival del documentario che è in corso in questi giorni a Nyon, sul lago Léman (poco distante da Rolle dove vive Jean-Luc Godard che a Nyon ha girato alcune parti di Adieu au language), vicina a Ginevra. Un festival «storico», nato nel 1969, divenuto un riferimento per il mercato del documentario di cui accoglie declinazioni e tendenze molto diverse con un programma pienissimo (forse troppo) tra omaggi (anche a Gianfranco Rosi con la masterclass tenuta da Jacopo Quadri), opere prime, esordi, scuole, concorsi corti, medi, lunghi, focus (sul Sudafrica). Questa edizione è anche l’ultima diretta da Luciano Barisone – al suo posto arriva Emilie Bujes – e vedremo se e cosa cambierà in un festival del quale è sempre più difficile individuare un desiderio di tendenza nell’ambizione di voler tracciare una mappatura del mondo.

C’era anche molta Italia disseminata nelle diverse sezioni e con un dato comune molto interessante: nessun film, a cominciare dal titolo in gara, Upwelling di Silvia Jop e Pietro Pasquetti (ne abbiamo parlato su queste pagine in occasione dell’anteprima a Filmmaker Festival) arriva da una «dimensione» istituzionale confermando ancora una volta l’energia preziosa degli indipendenti (tra i produttori di Upwelling c’è Esmeralda Calabria), gli unici a funzionare (e non solo nei doc) a livello internazionale.

Lech Kowalski dunque che torna negli States della sua giovinezza, a Utica, dove è cresciuto, 4 ore e mezza di macchina a nord di New York, una cittadina industriale come tante altre in America con la condanna alla decadenza e i ricordi di un sogno ormai svanito per sempre.
Nei suoi grandi magazzini lui ha scoperto i primi 45 giri, i Beatles, James Brown, gli Animals, il fine settimana le strade lì intorno si accendevano della febbre del sabato sera, c’era un lustrascarpe italiano, e al supermercato comprava patatite fritte e milk shake. Cosa rimane oggi in quel paesaggio che il resto del Paese sembra avere dimenticato? Chi lo abita, chi cerca di sopravviverci? Kowalski cerca delle storie e fin qui per un filmmaker niente di strano, la differenza è che a chi accetta di raccontare la propria offre dei soldi, «due volte di più la paga minima».

Quello che ascoltiamo, storia dopo storia, compone il ritratto di un’America povera, poverissima, massacrata all’interno (l’aveva raccontata meravigliosamente anche Jonathan Demme nel suo film su New Orleans), una condizione che fa paura e che la politica- specie adesso – preferisce ignorare sbandierando all’esterno il populismo dell’uomo forte, delle guerre, delle bombe nucleari, degli attacchi preventivi quando invece la «distruzione di massa» più imponente è quella che ne corrode ogni angolo remoto. C’è chi vive per strada e raccoglie lattine per guadagnare qualche dollaro. Chi spaccia e continua a spacciare perché a Utica tutti si conoscono e una volta che sei bollato non hai la possibilità di cambiare. Chi ha fatto tanti figli, e così i loro figli: «i figli fanno quello che facciamo noi non quello che gli diciamo». Famiglie african american, famiglie bianche. La madre è tossicodipendente, le figlie passate da parenti, famiglie di accoglienza sono state abusate, ora una ha un bimbo piccolo, nonostante tutto vuole credere nel futuro.

Non cambiano le cose, le variazioni di quei racconti esprimono lo stesso dolore, la stessa profonda crisi sociale, economica, lo stesso allucinante vuoto istituzionale e politico.
Ma prima di questo il nuovo film di Kowalski interroga nella sua narrazione soprattutto il cinema documentario oggi. Cosa significa cioè filmare la realtà nei suoi conflitti e nei suoi scollamenti, e soprattutto come porsi rispetto ai soggetti che ne sono l’espressione più visibile, poveri, migranti, tutti coloro che l’attualità ha già incasellato in una unica rappresentazione. Si può seguire una storia, romanzarla, cercare nell’individualità il contrasto alla statistica ma a che prezzo?

Anni fa Raymond Depardon fotografo, cineasta, narratore dell’Africa da prospettive oblique capaci di mettere in discussione l’intera relazione con l’occidente, diceva (era durante un’intervista al festival di Cannes) che ormai tutti chiedono soldi per rappresentare davanti all’ obiettivo loro stessi e il proprio immaginario.
C’è chi ora mette in mano la macchina da presa ai migranti (accade in un film come Les Sauters), ma anche quanto rimane della realtà e quanto invece si sconfina inevitabilmente in una rappresentazione «formattata»? Kowalski è onesto, dichara da subito la «contrattazione» anzi la esplicita rendendola il motore del suo film. Il liberismo imperante che inghiotte le esistenze di queste persone fa parte del gesto di filmare, ne diviene anzi il dispositivo. Se ciò che la gente vende sia «vero» o meno a quel punto non importa. È la base di questo rapporto che è vera, concreta, dichiarata senza manipolazioni. E permette al proletariato di avere un’immagine. E una storia contemporanea.