Se nell’immaginario comune è ben presente la figura dell’archeologo intento a dissotterrare memorie, più difficile è credere che lo stesso procedimento appartenga anche alla creazione contemporanea. Eppure è da questo inaspettato legame che nasce la mostra Affleurements, sino all’8 gennaio 2021 al Centre de conservation et de ressources (Ccr) di Marsiglia, costola del Musée des Civilisations de l’Europe et de la Méditerranée (Mucem).
La rassegna, a cura di Hélia Paukner, riunisce i lavori di quattro artisti – Amalie Smith, Sammy Baloji, Cristina Lucas e Francisco Tropa –, accolti nel 2019 presso differenti istituzioni culturali nel quadro del progetto di cooperazione europea Excavating Contemporary Archaeology (2018- 2020), mirato a esplorare la ricchezza e la diversità del patrimonio del Vecchio Continente.

[object Object]

ALL’AIR DI ANVERSA, al Point di Nicosia, al Kunsthal di Aarhus e al Mucem di Marsiglia, ciascun partecipante ha potuto immergersi nel contesto di residenza traendone ispirazione per produrre opere tanto dissimili quanto ancorate all’archeologia. Alla maniera degli archeologi, i protagonisti del progetto investigano infatti la superficie del mondo per far affiorare – da qui il titolo dell’esposizione – le tracce del passato, testimonianze di un momento storico a volte doloroso da rievocare o della memoria mitica di un’umanità che s’interroga sulle proprie origini.
«Saremmo tentati di opporre il rigore della pratica scientifica dell’archeologo all’immagine artistica ma, per portare a termine il proprio lavoro, anche l’artista deve far prova di rigore così come l’immaginazione è indispensabile all’archeologo per formulare ipotesi storiche o sapere dove sondare il terreno – afferma Paukner –. Forse potremmo dire, per il piacere della formula, che sia l’artista sia l’archeologo amino creare e ricreare dei mondi», conclude la responsabile del settore Arte Contemporanea del Mucem.
Il percorso espositivo si apre con Waves, video-installazione di Cristina Lucas (Jaén, 1973). Avvezza ad analizzare i rapporti di potere indotti dalle strutture politiche ed economiche, l’artista invoca la memoria collettiva per svelare le contraddizioni tra la storia ufficiale e il dispiegarsi degli eventi.

L’ISOLA DI CIPRO, contesa tra Oriente e Occidente, fin dall’antichità luogo di conflitti e dal 1974 divisa tra Grecia e Turchia, è dunque terra propizia alla riflessione di Lucas, che sulla spiaggia di Curio, nell’estremità meridionale dell’isola, e su quella di Akdenis, nel nord, filma Sofronis Sofroniou, poeta cipriota di lingua greca e Tugçe Tekhanlı, poeta cipriota di lingua turca mentre vengono invitati a dare un nome alle onde.
I due film sono giustapposti in un’installazione che ricorda, nell’immediatezza, una scena di armonia tra uomo e donna nella luce del Mediterraneo. Tuttavia, i due poeti non parlano la stessa lingua e i loro corpi, ripresi di schiena, si stagliano davanti a due orizzonti simili ma contrapposti: la storia, senza lasciare tracce nel paesaggio atemporale che l’artista ci mostra, ha decretato l’impossibilità dell’incontro.
Al passato coloniale della Repubblica Democratica del Congo e ai suoi effetti nel presente è rivolto invece lo sguardo militante di Sammy Baloji (Lubumbashi, 1978), membro uscente dell’Accademia di Francia – Villa Medici a Roma (vd. intervista di Manuela De Leonardis sul manifesto del 15.08.2020: https://cms.ilmanifesto.it/sammy-baloji-la-lettera-ritrovata/). L’installazione Fragments of Interlaced Dialogues materializza i rapporti di forza politica, economica e culturale tra il Congo colonizzato e le potenze colonizzatrici. Lo sfruttamento delle risorse del paese da parte dei coloni è rappresentato da tre scettri di rame che imitano le zanne di un elefante. Essi sono adagiati su carte geografiche, a significare il potere dei colonizzatori ma anche il rifiuto di quest’ultimi da parte dell’artista.

DUE DELLE CARTE PROPOSTE, infatti, sono state trasformate da Baloji in diagrammi astratti in seguito alla decisione del Museo Reale per l’Africa Centrale a Tervuren, in Belgio, di cancellare ogni dato riguardante gli abusi perpetrati nei territori del Congo. Nell’atmosfera ovattata del Ccr tornano inoltre a flottare le silhouette oniriche di Francisco Tropa (Lisbona, 1968), già esibite lo scorso inverno in questa stessa sede nell’ambito della rassegna Dèrriere Nous (https://cms.ilmanifesto.it/derriere-nous-tra-archeologia-e-arte-poetica/).

FRUTTO DI UN ATELIER sul tema dell’archeologia come metodo di ricerca e introspezione poetica che ha coinvolto gli studenti della scuola Louis Armand di Marsiglia, gli oggetti riaffiorati dai depositi del Mucem e i disegni degli studenti confluiscono nelle serigrafie «a strati» dell’artista portoghese, per restituire il racconto di un’immaginaria società scomparsa, un mondo pieno di storie in cui una misteriosa pietra blu – venerata dagli abitanti di un’isola sommersa dove si affogano gli uccelli – è regina. A chiudere l’esposizione è Clay Theory, un video di Amalia Smith (Brønshøj, Copenhagen, 1985), il cui titolo si basa su una controversa teoria del chimico irlandese Graham Cairns-Smith, secondo la quale la vita avrebbe inizio dall’interazione tra molecole d’argilla. Smith, scrittrice e artista plastica oltre che visiva, parte dalle figurine di terracotta cipriote dell’Età del bronzo – scoperte a Nicosia durante la sua residenza presso il Point Centre for Contemporary Art – per sondare la morfologia del paesaggio, in cui l’argilla è dono della natura che rimanda alle Veneri del paleolitico e ai miti fondatori della nostra civiltà come la creazione di Adamo, e poi svelare gli indizi del principio della vita.

A QUESTA MEDITAZIONE a tratti poetica sul rapporto tra materia e spirito – particolarmente coinvolgenti sono i frame in cui dalle mani sporche e umide di argilla di alcuni giovani nascono riproduzioni delle statuette oranti di Cipro –, segue una pioggia di immagini ipertecnologiche destinate a una proiezione in 3D. Quale futuro per il passato? È la domanda che risuona silenziosa in tutta la rassegna, presagendo una nuova forma di archeologia.
Da un rinvenimento archeologico scaturiscono anche le installazioni di Sara Ouhaddou, realizzate con il sostegno di Ammodo e della Fondazione Drosos nell’ambito di Manifesta 13 – biennale europea di creazione contemporanea – che, nello sfortunato anno del Covid-19, ha fatto tappa a Marsiglia attorno al tema Traits d’Union.s In Je rends ce qui m’appartient?/?Tu me rends ce qui t’appartient l’artista francese di origine marocchina, fino al 29 novembre, accoglie i visitatori del Museo di Storia con scaffali metallici pertinenti a un deposito immaginario o, meglio, immaginato da Ouhaddou come un archivio ancora sconosciuto agli abitanti della città focese.
Quelli che da lontano sembrano rocchi di colonna – forma architettonica comune a molte civiltà del passato – rivelano la loro identità anzitutto attraverso l’olfatto. L’androne del museo, che sconfina nella hall del brulicante centro commerciale della Bourse, profuma infatti di sapone. Il prodotto simbolo di Marsiglia – la prima saponeria attestata è del XIV secolo –, erede del sapone di Aleppo, è qui presentato in blocchi cilindrici di differente spessore in cui si incastonano i «cocci» solitamente raccolti in uno scavo archeologico. Questi singolari fusti di colonna, organici e minerali, sono il frutto dello scambio di saperi, nel Medioevo, tra il mondo arabo-andaluso e Marsiglia.

FRAMMENTI CERAMICI vengono esposti con ordine maniacale, ripuliti e dotati di schede, anche nel tavolo da lavoro dell’archeologo, altro elemento dell’installazione. Il tutto corredato da etichette che indicano la provenienza dei «reperti»: cantiere di Sainte-Barbe. Ma che significato ha questo «sito» nella storia di Marsiglia? È la stessa artista, affascinata dai racconti «rinnegati» ad alimentarne il mistero. Richiamando i visitatori con un’insegna luminosa che strizza l’occhio alle pubblicità, li invita a scoprire – poco più in là – la fornace di Sainte-Barbe. Nel cuore del museo, i resti di un forno a tecnologia arabo-andalusa per la cottura di ceramica risalente al XIII secolo, riemersi nel quartiere di Sainte-Barbe, danno vita alla seconda installazione concepita da Ouhaddou per Manifesta 13: Four à technologie Islamique – Céramique d’origine Orientale et Africaine – Production de terre rouge.
Il forno, esposto in un museo a sua volta collocato tra un’area archeologica (Porto Antico, ndr) e un centro commerciale, testimonia la storia di un mezzo di produzione arcaico di piatti e oggetti d’uso comune all’interno di un luogo di consumazione moderna. I metodi ancestrali di fabbricazione custoditi dal museo convivono, paradossalmente, con la produzione industriale di massa. Le vestigia del forno di Sainte-Barbe sono dunque, per Ouhaddou, occasione di riflessione sulla scelta delle storie da narrare e sulla loro valorizzazione in seno alla società ma anche sui limiti fisici della materia e sulla dimensione sperimentale nella trasmissione dei saperi.
Riprendendo le didascalie che accompagnano gli oggetti esibiti, l’artista si interroga inoltre sulla scelta dei nomi, generando delle grandi serigrafie in cui gli alfabeti si mescolano per creare un linguaggio nuovo e unico. Di tali segni ricopre le vetrine, allo scopo di proporre una definizione alternativa, aperta alle interpretazioni dei visitatori.