In copertina viene incontro a chi tiene in mano questo libro in forma di albo, l’immagine in biancoenero di Pier Paolo Pasolini con la maglia della nazionale di calcio mentre esce dal campo dopo una delle ultime, sappiamo accanitissime, partite amatoriali e sull’erba intanto si profilano, stampati a caratteri di lapide, alcuni versi che Umberto Saba, lui invece ignaro del football, dedicò ai calciatori della Triestina sul principio degli anni trenta: infatti, nel segno di Pasolini (che definì paradossalmente il calcio l’ultima sacra rappresentazione del nostro tempo) e con un verso di Saba medesimo si intitola Trepido seguo il vostro gioco. Antologia di sport e letteratura (Zanichelli, pp. 250, euro 12,50), una splendida silloge curata da Donatello Santarone e indirizzata sia agli studenti sia al pubblico degli appassionati. Santarone, docente di comparatistica a Roma e critico letterario (basti pensare ai suoi annosi contributi su Franco Fortini), muove dalla consapevolezza che lo sport, qui e adesso, non solo è parte integrante dell’immaginario collettivo ma è anche una pratica linguistica e/o uno scambio simbolico che ha saputo generare una imponente letteratura.

Campioni del modernismo

Ordinato per sezioni introdotte con precisione tecnica e limpidezza di linguaggio (perché Santarone non dà nulla per scontato e mira, sull’esempio gramsciano, al senso comune del lettore), suffragato da apparati informativi e bibliografici, infine arricchito da una iconografia di rara originalità (un fatto, questo, sorprendente nella trasandata editoria di oggi), il volume è diviso in sei sezioni, la prima e l’ultima riguardano il calcio, le intermedie la boxe, il ciclismo, la maratona e il baseball: ciò significa che l’antologista ha voluto incrociare il criterio storico (per esempio la maratona quale sport antico per eccellenza) con quello geografico (il baseball quale pratica di un continente egemone nel Novecento) escludendo le discipline che presentino una letteratura più marginale.
Non è un caso che la boxe tenga il campo con le pagine di alcuni campioni del modernismo, da Jack London a Ernst Hemingway, i quali l’hanno intesa tanto una epopea del darwinismo sociale (dunque come una pratica esclusiva/inclusiva del proletariato urbano nella società capitalista) quanto una vicenda di redenzione razziale, se è vero che il capolavoro di Norman Mailer, La sfida, un sedicente instant book dedicato all’incontro fra Ali e Foreman, decreta il compimento della parabola storica del pugilato proprio nella notte in cui a Kinshasa, nell’ex Congo belga ridivenuto Zaire, la négritude attinge la sua apoteosi. Nemmeno è un caso che a un simile decorso si affianchi nell’antologia quello del ciclismo che in Italia, il paese della rivalità fra Coppi e Bartali, risulta la disciplina più domestica e insieme l’arte della fatica nera, con le pagine di alcuni inviati d’eccezione al Giro (Dino Buzzati, Vasco Pratolini) e gli stralci dai libri più belli di chi fu un pioniere e un meraviglioso inventore della scrittura sportiva, Gianni Brera, firmatario fra l’altro di una biografia del Campionissimo, Coppi e il diavolo.

Un problema di disciplina

Se al cimento ascetico della maratona sono riservate le pagine di alcuni outsider (da Alan Sillitoe, il bardo proletario di Nottingham, a due fieri postmodernisti come Murakami Haruki e Jean Echenoz), viceversa proprio al baseball va la palma della qualità letteraria: è infatti nel paese-guida del neocapitalismo che, da un lato, lo sport nazionale ha più compiutamente permeato l’immaginario collettivo e, dall’altro, la letteratura ne ha trasceso i dati nudamente tecnici trasformandolo in allegoria e palinsesto epico, come nei casi di Bernard Malamud (Il fuoriclasse), di Philip Roth (Il Grande Romanzo Americano) e specialmente di Don DeLillo che, con Underworld, ha fornito una delle grandi opere del nostro tempo, laddove una semplice pallina da baseball, passata di mano in mano, si scopre emblema della comunità nazionale e, nello stesso tempo, la traccia itinerante di una coesistenza dominata dalla Guerra Fredda e di continuo ricattata dalla paura atomica. Ma è appunto al calcio, né poteva essere altrimenti, che sono riservate le sezioni di cerniera, l’una sulla disciplina sportiva in sé, l’altra sullo spettacolo planetario che da tempo sono divenuti i Mondiali.

Nella prima figurano le pagine canoniche dei poeti (il già citato Saba delle Cinque poesie sul gioco del calcio ma anche Vittorio Sereni, Giovanni Giudici, Giovanni Raboni, Maurizio Cucchi e un Edoardo Sanguineti tifoso del Genoa che non ci aspetteremmo), mentre nella seconda, che è anche la sezione più apertamente critica ed etimologicamente politica del volume, si introducono i problemi della mercificazione di questo sport, ad ogni suo livello, e del tifo come vera e propria religione mediatica. Scrive Santarone, in proposito: «Un calcio che prende progressivamente una direzione mercantile. Ciò rischia di compromettere in maniera definitiva il carattere giocoso e imprevedibile di questo sport. Le società divenute sempre più complessi finanziari-industriali; i calciatori pagati con stipendi da capogiro, che ne fanno uomini in vetrina distanti anni luce dai problemi di tutti; i diritti televisivi, che incidono pesantemente sui bilanci delle società; (…) lo strapotere dei potenti del calcio mondiale: tutto ciò, insieme alla spesso opaca presenza di banche, oligarchi ed emiri di ogni risma, sta riducendo il sistema-calcio a strumento per accumulare profitti e privilegi, sempre meno legato al mondo degli appassionati e dei tifosi».

Un’industria globale

Qui gli autori selezionati virano sul versante di un’acre nostalgia (è il caso di Mario Soldati che, settantenne, è inviato del Corriere della Sera ai Mondiali di Spagna ’82 e raccoglie l’anno dopo le sue cronache in ah! Il Mundial!) ovvero di un aperto sarcasmo, lo stesso che Giovanni Arpino devolve, con il romanzo Azzurro tenebra, alla disfatta degli azzurri ai Mondiali di Germania ’74. Ma le pagine più inventive e ispirate sono a firma di due fuoriclasse che i lettori del manifesto conoscono bene, l’indimenticabile Osvaldo Soriano (presente con uno dei racconti più celebri, Il rigore più lungo del mondo) e Eduardo Galeano, colui che meglio di ogni altro sa restituire l’epopea del football, i suoi antichi ricordi e i suoi attuali spettri, al tempo della globalizzazione.

Ha scritto Galeano nell’ormai classico Splendori e miserie del gioco del calcio: «La storia del calcio è un triste viaggio dal piacere al dovere. A mano a mano che lo sport si è fatto industria, è andato perdendo la bellezza che nasce dall’allegria di giocare per giocare. Oggi, il calcio professionistico condanna ciò che è inutile, ed è inutile ciò che non rende. Per fortuna appare ancora sui campi di gioco, sia pure molto di rado, qualche sfacciato con la faccia sporca che esce dallo spartito e commette lo sproposito di mettere a sedere tutta la squadra avversaria, l’arbitro e il pubblico delle tribune, per il puro piacere del corpo che si lancia verso l’avventura proibita della libertà». Non si potrebbe dirlo meglio né di meglio si potrebbe augurare a quanti dopo tutto lo giocano, lo amano e continuano a leggerne le res gestae.