Da diversi anni la Biennale Teatro affidata ad Alex Rigola ci aveva abituato a vedere sempre gli stessi artisti, o almeno un folto gruppo, che il regista catalano invitava senza nascondere che erano i suoi preferiti. Alla fine si era creata una sorta di routine, che ora si è finalmente spezzata al primo anno di direzione di Antonio Latella. Si può discutere sulle scelte, ma certo si individuano subito dei capisaldi dirimenti. A cominciare dal titolo stesso della rassegna: Atto primo: regista, in un momento in cui le esperienze teatrali più giovani sembrano rifiutare l’istituto stesso della regia, che spesso viene definita «collettiva», o neanche indicata nei titoli di testa di uno spettacolo (e del resto dopo la morte di Ronconi e Chereau, di Castri e di Grüber, della vecchia grande guardia solo Peter Stein resiste). Così tutti gli spettacoli in programma partono qui da una regia, e in particolare, altra scelta dirimente di Latella, sono tutte opere di donne registe, per lo più quasi sconosciute in Italia. A cominciare dalle vincitrici dei Leoni d’oro e d’argento, la tedesca Katrin Brack (ulteriore sorpresa, è una scenografa!) e la polacca Maja Kleczewska che dirige lo Stary Teatr di Cracovia.

È dedicata infatti al genere femminile l’intera rassegna; scelta condivisibile e non scontata, pensando alla scarsa fortuna che proprio in molte creazioni di Latella il personaggio donna ha finito con l’assumere. A Venezia il pubblico appare felice di incontrare il lavoro di tante artiste teatrali, perché per ognuna, nei limiti del possibile, è stata predisposta una sorta di «personale», attraverso la visione di due o tre spettacoli in sequenza. A cominciare dalle due italiane presenti, una ben nota apprezzata come Maria Grazia Cipriani che con il suo Teatro del Carretto tante magie ha messo in scena in questi anni, con lo struggente artificio di far interloquire gli attori con i mirabili «pupazzi» creati da Graziano Gregori. La seconda italiana, Livia Ferracchiati, è già nota e apprezzata dagli addetti ai lavori: ha appena vinto la finale del premio Scenario, col titolo che andrà a costituire la terza parte della trilogia di cui a Venezia ha presentato il primo e il secondo episodio. Infatti, mentre Todi is a small town è una sorta di divertissement sui luoghi comuni della beata vita in provincia, Peter Pan guarda sotto le gonne e Stabat Mater sono due affondi (programmati in trilogia) senza scrupoli né censure sull’identità sessuale e il gender.

Protagoniste creature che vivono la prigione di un corpo che ospita una sessualità diversa da quella che si vorrebbe e si vive. Con piglio più lieve nella prima, e senza rinunciare all’ironia neanche nella seconda, Ferracchiati impietosa allinea sensazioni, modi di dire, slanci e frustrazioni di una condizione che spesso viene liquidata prima che approfondita, con artifici teatrali che sembrano burlarsi di se stessi (la presenza di una fata, o il dialogo amaro e spudorato del secondo che avviene sotto l’occhio sgranato e «altrove» della madre (registrata da Laura Marinoni). A momenti le situazione appare esagerata tanto è esplicita, ma resta la determinazione forte di una giovane artista che fruga in recessi della persona normalmente «evasi». Una scrittura che sfida la violenza, ma che costringe ogni spettatore a misurarcisi nel profondo. Era molto attesa Anna Sophie Mahler, che prometteva uno spettacolo nato dalla fatica di aver riallestito a Bayreuth per otto anni la regia di Tristano e Isotta firmata dal genio di Christoph Marthaler. Qui il titolo diventa Tristano o Isotta.

Un pastiche. Ma la presenza delle scenografie di Marthaler è pretestuosa, e si discute ciabattando sui massimi sistemi dell’amore. Al contrario, la stessa regista con Alla fine del mare, lascia da parte il minacciato Fellini, e mostra almeno all’inizio, di aver appreso da Marthaler la geometria di uno spettacolo, usando come connettivo la Traviata verdiana. Un racconto (davvero «pasticciato») che dal grottesco improvvisamente enuclea il racconto di un cameriolino che echeggia i profughi siriani. Idee molto precise mostrano invece le olandesi Susan Bogaerdt e Bianca van der Shoot: il loro collettivo (altre 3 attrici scatenate, con loro in scena), ma soprattutto immagini dal titolo Bimbo.

Disposizione irrituale: il pubblico è seduto sulle panche all’esterno di un quadrato, all’interno di questo spazio le attrici recitano, ma gli spettatori lo vedono attraverso i diversi monitor da cui sono circondati. L’ispirazione dichiarata viene dai saggi di Debord e Baudrillard sul bombardamento delle immagini, nella sostanza è un catalogo parossistico di prestazioni sessuali d’ogni genere. Trucco, parrucche, maschere deformanti, oggetti d’arte «amatoria» e molta carne viva, in quello che dovrebbe essere l’inferno della strumentalizzazione della donna. A tratti fa sorridere l’ eccesso, alla fine risuona un moralismo perverso di difficile catalogazione. Da giovedì a sabato, il gran finale della Biennale College. Sei nuovi registi si disputeranno coi loro lavori i centomila euro per una nuova produzione. Gli altri frequentatori del College mostreranno i risultati raggiunti.