In questi mesi il dibattito su come finanziare la spesa straordinaria per la crisi economica accesa dall’emergenza sanitaria ha visto la destra sovranista italiana e una parte dei commentatori economici avanzare l’ipotesi di fare a meno finanziariamente dell’Europa.

Lo slogan è stato quello del «fare da soli». La strada indicata per rendere concreta questa prospettiva passa attraverso il tentativo di attrarre il risparmio liquido degli italiani verso l’acquisto volontario di titoli di debito.

Nelle ultime settimane è emerso come durante il lockdown la ricchezza liquida depositata da famiglie e imprese nei conti correnti sia ulteriormente aumentata di oltre 100 mld, arrivando a 1.858 mld complessivi. Il lockdown ha infatti coinciso per molti con il forte ridimensionamento del proprio reddito o del fatturato, ma per altri ha significato minor spesa e maggior risparmio o, soprattutto, rinvio di spese e investimenti in attesa di giorni migliori.

Dunque basterebbe attrarre queste risorse verso l’acquisto di titoli di Stato? Perché non averci pensato prima? Il successo del collocamento del nuovo Btp Italia a maggio ha fatto esultare anche Matteo Salvini che ha twittato: «È la prova che il Mes non serve, fiducia agli italiani». Il 6 luglio il lancio del Btp Futura ha fatto dire ad alcuni quotidiani di destra che il governo starebbe imboccando la strada indicata dalla Lega.

Le cose ci sembrano decisamente più complesse. Partiamo da alcuni dati. Dall’ultimo Btp Italia sono entrati 22,3 miliardi (cifra simile all’asta del 2013), ma questo indubbio successo va analizzato alla luce della scadenza ad aprile di oltre 20 miliardi di Btp Italia del 2014.

Al momento tra i detentori dei titoli di debito pubblico italiano, i cosiddetti retail (risparmiatori non professionisti degli investimenti in titoli finanziari) continuano a essere marginali. Negli anni Ottanta questo segmento di investitori deteneva circa il 60% del debito pubblico italiano. Venne anche coniato il termine di Bot-People per descrivere la massa di italiani con in tasca titoli pubblici. Con la finanziarizzazione dell’economia e l’abbassamento dei rendimenti e dell’inflazione, i rapporti si sono ribaltati, la quota detenuta da investitori finanziari è salita molto, in particolare quella riconducibile a investitori esteri.

Dalla crisi del 2008, e in particolare dopo le tensioni sui debiti sovrani del 2011, lo scenario è nuovamente cambiato. C’è stato un riequilibrio a favore di detentori nazionali, ma al contempo si è ridotta ulteriormente la quota dei retail: nel 2012 essi avevano oltre il 10% dei titoli pubblici, mentre ora la quota è scesa persino sotto il 4%.

C’è una spiegazione di mercato che ci permette di comprendere questa dinamica. Negli anni Ottanta i rendimenti reali erano non solo capaci di preservare i risparmi da un’inflazione che, pur lontana dai picchi di fini anni Settanta, ancora pungeva, ma dava rendimenti reali positivi. Oggi i rendimenti dei titoli di stato a 10 anni oscillano poco sopra all’1,5%. Chi investirebbe 1.000 euro per guadagnarne 15? Al massimo chi ha un enorme portafoglio, in un’ottica di differenziazione, ma probabilmente è chi già li possiede. Nelle fasi di crisi semmai aumenta la propensione alla liquidità.

Alcuni commentatori avanzano l’idea di rendere ancora più redditizi tali titoli con varie formule, ma a questo punto saremmo di fronte a un paradosso: o il rendimento dei Btp rimarrà relativamente basso, e allora non attirerà in misura così significativa i piccoli e medi risparmiatori, oppure crescerà, ma allora cosa ci sarebbe da festeggiare per le finanze pubbliche? L’ambizione a utilizzare il risparmio nazionale per fronteggiare il crescente debito pubblico appare piuttosto un’illusione.

Al momento chi aumenta le proprie quote di possesso di Btp è solo la Bce. Difficile essere autonomi dal liberismo europeo attraverso un liberismo sovranista.