Il cortile e le scale di un palazzo, vecchio di trecent’anni, sono una caratteristica tipica della Roma moderna, e interessano lo straniero più di molte altre cose delle quali ha sentito descrizioni più sublimi». Così inizia il capitolo dedicato allo studio in cui lavora Miriam, uno dei quattro personaggi principali de Il Fauno di Marmo di Nathaniel Hawthorne, una giovane pittrice la cui misteriosa personalità è al centro della trama della storia. Pubblicato nel 1860, il romanzo è ambientato in una Roma che appare il più delle volte oscura e imperscrutabile agli occhi dei giovani artisti arrivati dal nuovo mondo, ma al contempo irresistibilmente affascinante. La città viene descritta con una realistica minuziosità tale da farla diventare uno dei protagonisti della storia. Quello di Hawthorne è un racconto a tinte fosche che affascinò immediatamente frotte di entusiasti viaggiatori di oltre Oceano che, nel tentativo di emulare i personaggi del romanzo, in cerca del maestoso confronto con il passato, ma anche di una vita bohémienne e senz’altro più economica, si riversarono a Roma facendone per anni la propria dimora.
Molti di loro hanno attraversato l’Oceano più volte per poi tornare definitivamente in patria e altri, invece, non vi hanno fatto più ritorno lasciandosi adottare dalla città. C’è chi ha vissuto in case grandiose, piani nobili di antichi palazzi romani, come gli Story a palazzo Barberini o i Terry a palazzo Odescalchi, chi in modeste stanze subaffittate da altri artisti e chi in luoghi fascinosi divenuti meta di pellegrinaggio di committenti e compratori, come Moses Jacob Ezekiel alle Terme di Diocleziano.
C’è chi ha lasciato un segno profondo nella vita artistica e sociale e chi è stato quasi del tutto dimenticato. Le loro storie da espatriati di lusso si sono incrociate senza sosta lungo le strade e nelle piazze di quella zona compresa per lo più fra Piazza di Spagna e Piazza Barberini, conosciuta come il «ghetto degli americani». Per farsi tornare alla memoria i nomi di tutti quelli che hanno scelto Roma come patria di adozione è sufficiente, e meraviglioso al contempo, fare una passeggiata nel cimitero acattolico di Testaccio, accanto alla Piramide, o camminare per le strade del centro a testa in su facendo caso alle tante targhe sui palazzi in ricordo di chi, noto o meno noto, vi ha vissuto.
Invitato dalla famiglia di William Wetmore Story a scrivere una biografia dell’artista subito dopo la sua morte avvenuta nel 1895, Henry James accettò controvoglia, evidentemente non troppo convinto delle reali qualità dello scultore. Pesò forse sulla decisione la scelta che lo scrittore americano aveva da poco fatto di trasferirsi a vivere nella casa di Rye, nel Sussex, e le spese che erano necessarie al suo rinnovo. Per evitare di confrontarsi unicamente con un artista che chiaramente non apprezzava fino in fondo, James decise allora di allargare il campo della sua indagine raccontando parzialmente anche le vicende che ruotavano intorno allo scultore e al famoso appartamento che la sua famiglia aveva preso in affitto a palazzo Barberini.
Una descrizione degli artisti espatriati e della città forse meno raffinata rispetto a quella che si legge in William Wetmore Story and his Friends, ma più viva e, per certi aspetti, più interessante, si trova in un prezioso e poco conosciuto libro, che sarebbe da tradurre, dal titolo Italy. The Magic Land. Lo scrisse Lilian Whiting, una giornalista americana in viaggio in Italia.
Il libro, pubblicato nel 1907 dalla casa editrice Little, Brown, and Company di Boston, è dedicato a Mrs. Franklin Simmons, moglie dello scultore amico della Whiting del quale, già nella prefazione, la scrittrice invita a visitare il grande studio a via San Nicola da Tolentino per ammirarne le creazioni che offrono «nuovo interesse alla più divina di tutte le arti».
Nei capitoli dedicati a Roma, parte principale del libro, si intuisce subito il taglio decisamente nuovo che l’autrice dà alla sua opera rispetto a quelle degli autori precedenti. Mentre nel primo capitolo, infatti, la bellezza che ha reso famosa la città è, per così dire, filtrata attraverso lo sguardo e l’opera degli artisti stranieri contemporanei, nel secondo, dedicato alla vita sociale e mondana, i protagonisti, anche se sono sempre i membri di quella enclave internazionale che da quasi mezzo secolo abitava a Roma, non fanno più parte di una società chiusa e benpensante come quella che ad esempio James descriveva in Roderick Hudson o Daisy Miller. Il mondo della Whiting è ormai cosmopolita, vive in una città non più soltanto memore delle proprie maestose rovine, ma proiettata in un futuro che la vorrebbe a pieno titolo una capitale europea: «sono così tanti gli americani e gli inglesi che la affollano durante l’inverno che sembra proprio che Roma stia diventando una città in cui si parla abitualmente inglese. Nonostante ci siano almeno una dozzina di nuovi grandi alberghi proprio come quelli che si possono trovare a New York o Parigi, oltre alla moltitudine di quelli vecchi, molto noti e confortevoli, l’aumento degli alloggi non è comunque pari all’aumento della richiesta».
La descrizione del grande ballo dato nell’inverno del 1907 all’ambasciata americana a palazzo Del Drago merita di essere letta con particolare attenzione perché ci fa capire quanto in quei giorni anche gli scenari mondani fossero ben diversi rispetto ai ricevimenti un po’ provinciali in cui qualche decennio prima splendeva la jamesiana Christina Light: «Il gran numero di immensi saloni ha consentito a tutti gli ospiti di sistemarsi lussuosamente nelle poltrone o nei tanti divani per ammirare la scintillante serata. La sala da pranzo e il salone da ballo non erano infatti più attraenti dei tanti salotti in cui si poteva studiare la brillante folla di diplomatici, aristocratici, artisti illustri, celebrità sociali e tutti coloro che, in qualche modo, sono apprezzati e ben voluti a Roma».
E anche le case degli artisti non sono più soltanto romantiche soffitte ma lussuosi appartamenti nella parte nuova della città, come quello di Franklin Simmons e la moglie, «nel bellissimo Palazzo Tamagno in Via Agostino Depretis, uno di quegli immensi appartamenti da venti o trenta stanze che si possono trovare soltanto in un palazzo romano e che loro hanno trasformato in un brillante punto di riferimento della vita sociale della città».
Scorrendo le quasi duecento pagine dedicate alla vita mondana e intellettuale di Roma e i nomi degli artisti noti, meno noti o del tutto sconosciuti, si respira quell’afflato internazionale che in poco più di cinquant’anni ha fatto dimenticare le atmosfere cupe di Hawthorne, caratterizzate da catacombe e misteriose e persecutorie figure del passato. Quella di Whiting è quindi una straordinaria via di mezzo fra una guida per stranieri, un saggio di arte contemporanea, un reportage giornalistico e, soprattutto, un inaspettato ritratto di Roma all’inizio del Novecento.