Si addice ai tempi presenti dove circola il sapore del sangue un film come White God del fenomenale regista ungherese Kornél Mundruczó. La sua specialità è riempire gli spazi vuoti di dinamiche incontrollabili, così fece nelle silenziose paludi di Delta, così in questa Budapest deserta dove sola circola la sorda violenza. Sarà forse la cancellazione di diritti dei recenti governi ultranazionalisti?

Certamente una delle iniziative che sembra aver conquistato in questa chiave svariati paesi dell’est è stato l’abbattimento dei cani randagi, così in Romania, in Ucraina (non a caso già a suo tempo allineati con il nazifascismo e non solo allora) compresa l’olimpica Sochi. In Ungheria in particolare i cani che non appartengono alla razza pura devono pagare tasse salatissime determinando l’abbandono dei meticci. Hagen il cane di Lili è abbandonato dal padre sulla circonvallazione. Lili e il vagabondo, si direbbe, anche se siamo ben lontani dagli stereotipi del cinema americano, tranne che per l’amore esclusivo della ragazzina per il suo labrador. La silenziosa Lili vive nel vuoto di vita affettiva, affidata a un padre amareggiato, abbandonata dalla madre che se ne è andata via con un altro. L’uscita del film era stata programmata intorno all’Epifania ed è stato velocemente sostituito con il rassicurante Italo, la storia vera del buon cane che dopo la morte del padrone si reca tutti i giorni all’uscita della chiesa e viene poi adottato da tutto il paese. Qui siamo in clima di guerra totale, di apocalisse, di horror sociologico senza esclusione di colpi. Hagen deve sopravvivere catturato in situazioni sempre più dure di schiavitù. Individuato come esemplare perfetto da combattimento è addestrato alla ferocia con metodi adeguati mentre, in parallelo Lili si esercita alla tromba per il concerto finale della scuola. Tutti e due si esercitano a fronteggiare la vita con le sue regole violente. Non ci sono simpatici compagni di strada ad alleggerire il contesto, ma ceffi che operano con catene, chiodi, sangue e violenza. La ribellione cova sorda, ma esplode poi in forma organizzata e inaspettata. Non si tratta più solo del cagnolino che torna dal padroncino, ma di una torma di cani (nessun regista ha mai girato con 250 cani, prima) che in maniera scientifica percorrono la città ed eliminano uno dopo l’altro con ferocia tutti i loschi figuri che li hanno perseguitati, orribile vendetta di una specie sottomesa e incubo che solo Lili riuscirà a contenere, con la sua tromba/flauto magico.

Il film esce in Italia con il titolo: «White God, Sinfonia per Hagen» come per smorzare un po’ la violenza del film. Abbiamo letto che il titolo si riferisce all’opera di J.M. Coetzee, e che ha realizzato una pièce teatrale da Disgrace. Può dirci qualcosa di più a proposito? Non solo rispetto a questo lavoro, alla posizione animalista dello scrittore, ma anche a quel particolare sguardo che dovrebbe essere puntato su di noi da parte di un god-dog (nelle altre lingue il gioco di parole non funziona).

La distribuzione ha il dirtitto di scegliere il titolo che ritiene più appropriato per la cultura di ogni paese. «White God» ha diversi titoli nei vari paesi, mentre il film resta sempre lo stesso. Si tratta di un elemento fondamentale del concetto di Coetzee del mondo, dove ogni essere vivente, cioè l’umanità, gli animali e le piante godono di un diritto primordiale di sopravvivere per il loro beneficio reciproco. La filosofia di Coetzee, in generale, e il suo pensiero sull’umanità hanno avuto un effetto decisivo sul mio modo di concepire l’esistenza in generale, come anche sull’umanità e sull’ambiente, e la responsabilità morale che dovremmo avere sugli altri, razze e minoranze diverse.

Il film sembrerebbe anche fornire una barriera al razzismo dilagante in Europa. Era arrivata qualche tempo fa una notizia anche sulla nostra stampa che in Ungheria un’ordinanza stabiliva la soppressione dei cani randagi. Il film si sviluppa anche a partire da questa notizia? Com’era diventata a quel punto la situazione sociale del paese?

Sì, certo, il fatto che la legge proposta dal partito della destra estrema – proposta rifiutata alla fine dal Parlamento – avesse lo scopo di classificare i cani e di tassarli secondo la specie mi ha turbato a tal punto che non potevo non cercare di esprimere i miei sentimenti in un film. Delle idee di quel tipo, qualsiasi tentativo di discriminare qualsiasi minoranza, finisce per scatenare reazioni nocive in una società la cui storia ha avuto molto a che fare con simili processi da vicolo cieco. Quando il mio sguardo incontrava lo sguardo di cani destinati alla morte in un canile che mi è capitato di visitare, mi sono reso conto che, anche se prima non ne avevo la minima coscienza, facevo parte di un sistema in cui si discriminava un’altra razza. Divenne chiaro che dovevo fare un film senza ambiguità rispetto a quel problema. E siccome faccio parte della società ungherese, la mia critica di quella società è anche un’autocritica.

Cosa è sparito in realtà dalle strade di Budapest che vediamo così deserte?

La scena primordiale che avevo in mente era quella di strade vuote occupate improvvisamente da una muta di cani randagi. Per me, una strada vuota in un quartiere per bene vuol dire un qualche tipo di paura, qualcosa di pos-tapocalittico. I benpensanti intolleranti, i razzisti e quelli che mettono a tacere i loro complessi di inferiorità attraverso la discriminazione si sono trovati pieni di terrore. Ciò che succede prossimamente potrebbe risolvere il loro destino.

Per il cinema americano il cane è una componente della famiglia, presenza rassicurante. Cosa rappresenta in Ungheria? Rispetto alla funzione simbolica che ha assunto il cavallo, non ricordiamo di aver visto altri film ungheresi con cani, se non di passaggio nei villaggi.

Non mi sembra una specialità americana. Per me, un cane fa parte integrante della famiglia ed è questo che gli stessi cani si considerano. Sono contenti e a posto se vedono con chiarezza qual è il loro rango, i loro diritti e limiti e le loro responsabilità nella famiglia a cui appartengono. «White God» narra una vicenda in cui un cane, un membro vero della famiglia di appartenenza, viene costretto all’esclusione sociale e a un viaggio morale. Non gli è facile adattarsi alle nuove circostanze, cioè di essere privato dei suoi diritti. Se ne segue la pace o meno, sta al pubblico decidere.

Sempre si chiede ai registi: com’è lavorare con bambini? In questo caso: com’è lavorare con i cani? Sappiamo che il labrador Hagen sono in realtà due fratelli, ma tutti gli altri? Ci può parlare degli addestratori e degli effetti speciali?

La mia idea fondamentale dall’inizio escludeva qualsiasi effetto speciale o animale di razza. È stata la straordinaria addestratrice americana di cani Teresa Ann Miller a trovare i due protagonisti e trasformare i due fratelli randagi in Hagen. Il professionista ungherese Árpád Halász e la sua équipe ha offerto alla nostra troupe per le riprese l’esperienza di un miracolo: 250 vittime degli accalappiacani che sono stati trasformati in una allegra banda di cani pronti a lavorare insieme durante le riprese credendo che davvero il loro compito fosse giocare tra loro e con noi della troupe. Bisogna celebrare anche come un loro successo il fatto che, alla fine della lavorazione, ognuno di loro abbia trovato una famiglia affettuosa attraverso il nostro programma di adozione.

Il film è come un grido di allarme, ma per qualcosa che è già troppo tardi da fronteggiare, la crisi economica che ha trasformato tutti in vittime inermi, può essere anche una bomba pronta ad esplodere. Ci sono segnali di questa esplosione nella società ungherese che è una delle punte avanzate del nazionalismo in Europa?

Non è facile rispondere a questa domanda. Non sono un profeta. La crisi economica ha portato a una specie di crisi morale seguita da problemi con il costo della vita. L’incertezza esistenziale apre facilmente la porta alla discriminazione, al nazionalismo, alla xenofobia e a una repulsione verso l’occidente. In Ungheria abbiamo sperimentato troppi esempi di processi disastrosi. A me d’altra parte l’Ungheria non sembra più l’unico esemplare esotico di estremismo. Abbiamo visto anche l’evolversi di tendenze simili a Copenhagen, Anversa, Roma, Parigi, ecc. L’Ungheria dimostra piuttosto l’essenza della deriva in cui l’Europa si trova – forse, anche se è un percorso che dovrebbe smettere di seguire.

Ho frequentato per alcuni anni il festival del cinema a Budapest e ho conosciuti i registi «storici» (Jancso, Kovacs, Pal Gabor, Metzaros, Gaal…) ma da quando il governo ha dato una svolta al paese, il festival non si è più fatto, è più difficile comporre le coordinate di una intera generazione, comprendere di cosa «non si può parlare». I suoi film anche se sono così diversi da ogni altro linguaggio cinematografico ci riportano qualcosa di quella tradizione per astrazione. forza e stile. Pensiamo soprattutto a Jancso e al suo stretto rapporto con la storia. Pur essendo un ragazzo dei tempi contemporanei riconosce qualche punto di riferimento nel suo paese o in altre cinematografie?

Miklos Jancso mi ha aiutato parecchio, anche in modo diretto, in quanto gli ho chiesto e ho apprezzato molto il suo parere. In effetti «White God» è stato l’ultimo film da lui visionato e commentato, ed è lui che mi ha aiutato a dargli una sua forma definitiva. Era una persona straordinaria. Riusciva a dipanare delle problematiche filosofiche difficili attraverso i film, mantenendoli a un alto livello di complessità intellettuale. Per la prima volta ha introdotto nel linguaggio cinematografico l’uso della parabola e della metafora. Per quanto riguarda i film che mi hanno dato molto piacere da giovane ci sono stati quelli di Fassbinder, poi i primi film espressionisti sovietici, Più in là, come i miei coetanei ho amato i colossal di Hollywood come Blade Runner, Terminator ecc. Gli anni Ottanta e Novanta mi hanno portato il cinema post-apocalittico cui nessuno poteva resistere.