I mali italiani nel campo della musica, del teatro, e dello spettacolo in genere, hanno radici lontane. Le società europee, e in particolare quelle tedesca, francese e soprattutto inglese, non hanno espulso del tutto la musica dallo studio universitario, come invece ha fatto l’Italia, ma l’hanno trasformata in una disciplina moderna come le altre. Quanto al teatro, visse una profonda trasformazione nel corso dell’Illuminismo. Goethe a Weimar e Lessing ad Amburgo ne fecero un luogo di acceso dibattito culturale. La Rivoluzione Francese conferì poi al teatro un ruolo politico e sociale prima ignoto. Viene da qui l’interesse dello Stato in Gran Bretagna, in Francia e in Germania, a sostenere musica e teatro come beni di interesse pubblico. Basti pensare, per esempio, che la soppressione di uno spettacolo a Nizza, per le misure anti-covid, ha significato per la compagnia il rimborso del 70 % del compenso pattuito in contratto. Le percentuali dei «ristori», oggi «sostegni», in Italia sono invece risibili.

Continuiamo a essere un paese povero che vuole fare la figura del paese ricco. Il problema di fondo è che musica, teatro, spettacolo dal vivo, in Italia non sono considerati cultura, bensì divertimento. Espulsa dalle università, dalle scuole, la musica per l’italiano medio è uno svago, una consolazione. Ultimamente, alcuni ascoltatori di radio3 hanno protestato perché a loro parere si trasmette troppa musica «brutta», ovvero composta dal ‘900 in poi e prima del ‘700. Il problema, dunque, è prima di tutto culturale. Sarebbe sbagliato imputare all’italiano medio le conseguenze del fatto che la cultura non rientra negli interessi primari della politica, che il teatro, la musica, non siano sentiti come esigenza culturale. Che il denaro investito nei teatri e nelle istituzioni musicali sia denominato sovvenzione, invece che finanziamento, è la spia linguistica di questo disinteresse.

L’istruzione, in Italia, non sollecita i bambini, non li educa all’interesse per la musica come campo ineliminabile della conoscenza, e la competenza effettiva in campo musicale è delegata a coloro che devono praticarla: appunto per divertire. Succede allora che, in tempo di pandemia, attori e musicisti abbiano cercato di riempire questo vuoto con interpretazioni e rappresentazioni dentro teatri senza pubblico, trasmesse in streaming. Senza suscitare, tuttavia, nemmeno così, l’interesse della politica. Forse anche perché musicisti e attori non hanno una voce comune che s’imponga, che si faccia sentire. Una parte del pubblico li ha seguiti: al computer, alla televisione. Ma lo spettacolo, il concerto senza pubblico sono un’ombra, un pallido riflesso di ciò che sono stati concepiti per essere, perché il pubblico ne è parte integrante. L’attore, il musicista percepiscono distintamente se il pubblico ascolta, vede, segue. «Quello che accade non potrebbe succedere senza spettatori, e ciò vuol dire che gli spettatori sono parte dello spettacolo», ha detto il drammaturgo russo Ivan Vyrypaev. Bellissimo lo Stravinskij diretto da Daniele Gatti al Maxxi di Roma, con quadri di pittura contemporanea alle pareti, che sembravano echeggiare la musica; ma quella musica non è destinata a un muro, bensì alle orecchie e agli occhi di un pubblico. Sì, anche agli occhi. Perché un musicista che suona non fa solo musica, ma fa spettacolo del suo fare musica.