Ci sono schermi bianchi pronti a giocare con la Storia «che non c’è» e altri dove la parola fine o, meglio ancora, the end, cerca di chiudere con il passato, con la deperibile miserabilità delle biografie collettive, per aprire a possibili narrazioni del presente. Spesso, quegli stessi schermi non sono bidimensionali, ma sculture che incorporano il movimento, spingendosi verso il mondo esterno, in offerta oscena. Se invece c’è un tempo che Fabio Mauri lascia scorrere senza provare a decifrarlo, questo è il futuro. Nella sua lunga e intensa attività artistica e culturale, quella prospettiva predittiva, forse arrogante, non è mai...