«Mi innamorai subito del deserto e non capivo perché gli israeliani volessero trasformarlo in un giardino». L’intero significato dell’esperienza descritta da Wlodek Goldkorn in L’asino del Messia (Feltrinelli, pp. 222, euro 16) può essere racchiuso in questa frase, che traduce immediatamente i sentimenti più profondi e il modo di guardare al mondo dell’autore. Arrivato nel 1968 in Israele, a soli sedici anni, in fuga con la famiglia dalla Polonia dove andava riemergendo l’antico antisemitismo che si era intrecciato al progetto nazista della Shoah, ma anche guidato dal sogno sionista di una patria per gli ebrei, Goldkorn è accompagnato da un entusiasmo che andrà via via scemando. Al giovane che diverrà uomo nella temperie politica che in Medioriente fece seguito alla Guerra dei sei giorni, che da giovane recluta a Ramallah si rifiuterà di puntare il fucile contro un bambino palestinese, che svilupperà subito il proprio istinto di oppositore, legandosi all’estrema sinistra israeliana e frequentando i circoli anarchici del Paese, l’identità intorno alla quale lo Stato ebraico si è andato definendo non poteva che andare stretta.

IN QUESTO SENSO, il «tentativo di riflettere sul sogno di trasformare il deserto, e quindi la trascendenza, in terra coltivata», lasciandosi alle spalle «l’immaginario, prigioniero dei boschi dell’Europa orientale» dei tanti ebrei giunti come lui in Israele nei decenni del secondo dopoguerra, rappresenta non solo l’evidente prosieguo del percorso iniziato con Il bambino nella neve (Feltrinelli, 2016), altro «viaggio di ritorno», in questo caso nella Polonia di Auschwitz, Sobibór e Treblinka, ma ancora più in là, inaugurato quasi un quindicennio orsono da La scelta di Abramo (Bollati Boringhieri, 2006), testo che ribadiva fin dal sottotitolo il senso ultimo di questa ricerca, parlando di «identità ebraiche e postmodernità».

Marek Edelman

Perché nell’intreccio narrativo irresistibile che si compie tra biografia, memoir e reportage ad essere raccontato non è solo un destino individuale, ma in qualche modo il portato di un’identità o meglio la sfida che continua a rappresentare.

NON A CASO, spiega Goldkorn, «l’identità non ha a che fare con la ricostruzione ma con una perlustrazione non lineare – letteraria, sociale, linguistica … per me essere di casa significa conoscere la lingua e, siccome in diverse lingue sono di casa, ho diverse identità».

Nell’Israele dei primi anni ’70 all’uomo che in seguito sceglierà Marek Edelman – che cresciuto nel Bund era stato uno dei comandanti dell’insurrezione del ghetto di Varsavia – come maestro di vita, dedicandogli anche Il guardiano (Sellerio, 2016), l’esperienza nei kibbutz e nell’esercito si accompagna alla scoperta dell’amore, come alle serate sui «gag», i tetti in ebraico, dove grazie ad un piccolo giradischi portato dalla Polonia i giovani potevano ascoltare Beatles e Rolling Stones, ma anche qualche raro rocker locale, o fumare l’hashish che arrivava dal Libano.

La cantante egiziana Umm Kulthum

È UN MONDO NUOVO che attraverso la «patria» ritrovata si mostra di fronte al ragazzo polacco. La scoperta della musica e del cinema arabi, di cantanti come Asmahan, la «Rita Hayworth» mediorientale, protagonista di tanti film in cui recita e canta, di Leila Murad, ebrea egiziana che si era convertita all’Islam, «forse per amore», di Umm Kulthum.

Ma è soprattutto nella scoperta e nell’incontro con gli intellettuali, scrittori e scrittrici israeliani che Goldkorn sentirà all’epoca e via via in seguito di aver trovato davvero «una casa» nella lingua, aspra e dura a prima vista, ma in grado di dischiudere ai suoi occhi un mondo immenso e inesauribile. Da un quarantenne Zygmunt Bauman a Amos Oz, da Abraham Yehoshua a David Grossman. E le poete. Da Lea Goldberg, scomparsa proprio nel 1970 a soli cinquantanove anni, a Yona Wallach e Dahlia Ravikovitch che l’autore conobbe da vicino.

Dopo che l’ebraico era stato la lingua dei maschi che la usavano per le sacre scritture, «quando nacque una seconda volta, quando il sionismo lo resuscitò e rinnovò come lingua virile, volta a creare il pioniere in Terra d’Israele, Lea Goldberg lo rese invece lingua femmina, parlò dell’amore e cantò il desiderio», ricorda Goldkorn che aggiunge come da un poesia di Dahlia Ravikovitch fu tratta una canzone per settimane in cima alla hit parade subito dopo la fine della Guerra dei sei giorni. «La trasmetteva la radio, in continuazione, mentre lei era ricoverata nel reparto di psichiatria di un ospedale di Tel Aviv». Aveva scritto che «quando un uomo cade dall’aereo in mezzo alla notte solo Dio lo può salvare» e con quei versi «ricordò che la vittoria in una guerra non toglie l’angoscia. Lei di angoscia morì suicida».

COSÌ, L’IMMAGINE della società israeliana che restituisce L’asino del Messia emerge dalle contraddizioni, dalle zone d’ombra, dalla memoria non assunta della violenza inferta, ai palestinesi, oltre che da quella subita. Lo sguardo di Vlodek Goldkorn si affina passo dopo passo e dall’entusiasmo iniziale si tramuta in un giudizio altrettanto netto.

La poeta israeliana Lea Goldberg

«Sono stato fortunato a non cedere ai pregiudizi: fin da ragazzo mi sono ritrovato pronto ad accettare anche dal punto di vista estetico l’altro, il presunto nemico, l’estraneo. La curiosità è ricchezza. Prima ancora di capire il conflitto israelo-palestinese, nei concittadini della mia nuova patria avevo percepito una chiusura. Entusiasta e sionista come ero, mi sembrava un retaggio del vecchio mondo: arretratezza dello shtetl. Pensavo che un giorno tutto questo sarebbe sparito per dare vita ad un Paese davvero nuovo e libero da pregiudizi. Oggi lo so, non avevo nostalgia degli ebrei d’anteguerra, anche se ho appena scritto il contrario. Sono un nostalgico della loro fede nel futuro, sono un devoto, di più, un fanatico della memoria degli sconfitti e rivendico con tutte le mie forze la dignità della disfatta».