Massimo Bucciantini, che ha insegnato Storia della scienza e Letteratura italiana contemporanea all’Università di Siena, in questo suo ultimo saggio (Siamo tutti galileiani, Einaudi, pp. 120, euro 12) ritorna su un tema a lui caro, ovvero quello dell’inesistenza di una differenza tra cultura umanistica e cultura scientifica. Charles P. Snow scrisse nel 1959 un saggio dal titolo Le due culture che ebbe una vasta risonanza mondiale. Il filosofo della scienza Ludovico Geymonat scriveva nella prefazione che «l’esigenza di superare la frattura oggi esistente fra le due culture ci apparirà come il frutto più maturo dello sviluppo culturale dell’umanità, come il compito più impegnativo di ogni studioso responsabile e coerente».

POSSIAMO OGGI correntemente parlare di una terza cultura, come ha intitolato un suo saggio del 1996 John Brockman, ovvero una cultura che si identifica con l’attività di «quegli scienziati che sanno dire cose nuove e interessanti sul mondo e sui noi stessi; che lo sanno raccontare a un pubblico vasto, diffondendo la conoscenza oltre i confini angusti dell’accademia».

Bucciantini porta come esempio paradigmatico dell’inesistenza di questa dicotomia, che molto ha risentito nel nostro Paese dell’influenza del pensiero di Benedetto Croce, Galileo Galilei, al quale ha dedicato altri studi fondamentali. L’attenzione nei confronti di una personalità così eclettica è dovuta proprio alla pluralità dei suoi interessi. La dimostrazione di Galileo confermava ciò che Copernico aveva ipotizzato una decina di anni prima. Non fu accettata dal Tribunale dell’Inquisizione, che lo costrinse a cedere alla sua teoria e fu condannato al carcere. Si consumò così la grande frattura tra la Chiesa e la «nuova scienza».

Galileo ritiene la scienza un fatto d’interesse pubblico, che non può essere relegato solo alle sfere più alte della società. Sceglie, pertanto, il volgare a discapito del latino per coinvolgere un pubblico il più vasto possibile, rispetto alla sola cerchia degli eruditi. Tra le sue qualità migliori si annoverano la chiarezza descrittiva della lingua e la forma convincente con cui presenta i risultati delle sue ricerche, anche in campo non scientifico. Atteggiamento che si riflette appieno nel suo stile, caratterizzato da una prosa chiara e diretta, sempre finalizzata ad uno scopo ben preciso. A metà tra relazione scientifica e opera letteraria, il «Sidereus Nuncius» è da più parti considerato come il prototipo di un genere di scrittura fino a quel momento mai visto, in cui la narrazione si fa portatrice di informazioni di natura scientifica, dimostrate e dimostrabili, tanto da rendere Galileo anche un grande scrittore nell’ambito della letteratura italiana.

TRA GLI SCRITTORI ITALIANI del Novecento che hanno interpretato al meglio la lezione di Galileo, Bucciantini riconosce Carlo Emilio Gadda, Italo Calvino, Primo Levi e Daniele Del Giudice. Calvino in un passo della sua raccolta di saggi Una pietra sopra scriveva: «Galileo usa il linguaggio non come uno strumento neutro, ma con una coscienza letteraria, con una continua partecipazione espressiva, immaginativa, addirittura lirica. Leggendo Galileo mi piace cercare i passi in cui parla della Luna: è la prima volta che la Luna diventa per gli uomini un oggetto reale, che viene descritta minutamente come cosa tangibile, eppure appena la Luna compare, nel linguaggio di Galileo si sente una specie di rarefazione, di levitazione: ci s’innalza in un’incantata sospensione».

Il messaggio più importante che Galileo ci trasmette, come Bucciantini rimarca chiudendo il suo saggio è quello di «un’idea di scienza come sapere autonomo, aperto e pubblico, fondato sul binomi inseparabile delle sensate esperienze e delle certe dimostrazioni». Ancora oggi di un’estrema modernità e un monito per tutti noi.