Fanny Ardant approda in piazza Grande, di persona e sul grande schermo. Era già stata a Locarno nel 1983 per inaugurare il festival come protagonista di Finalmente domenica, purtroppo l’ultimo film diretto da François Truffaut, all’epoca suo marito.
Una vita è trascorsa, ma Fanny è ancora una donna di gran fascino, acuta e dall’intelligenza vivacissima, con un sorriso disarmante e contagioso. Ora come allora un’icona.

Un’icona che irrompe sullo schermo con un ruolo decisamente inconsueto, confezionato per lei dal regista e sceneggiatore di Lola Pater Nadir Moknèche. Siamo nella comunità parigina di origine algerina. Zino, giovane musicista e accordatore, ha appena perso l’amatissima madre che lo allevato da sola. Non ha mai conosciuto suo padre. E decide di andare a scovarlo all’indirizzo che ora conosce.
Solo che babbo Farid, un tempo ballerino classico, da venticinque anni è diventato Lola, anche se vive con una compagna, e insegna danza tradizionale. Zino quindi crede che quella signora che ha parlato con lui sia la nuova moglie di papà, lascia un messaggio e se ne va, neppure sospettando quel che è successo nel frattempo. Tocca a Farid/Lola andare a Parigi, stanare Zino e raccontargli la complicata verità.

Siamo nel melodramma classico, con quella variante di sesso che scombussola un po’ riferimenti e personaggi.
Lola è magnifica nel rievocare l’amata moglie, che sapeva quanto lui Farid si sentisse spaesato in quel corpo maschile. Anche perché aleggia una cultura piuttosto machista, al punto che Lola ipotizza come per la sua nuova compagna possa essere stata proprio questa sua componente da macho la chiave decisiva per farla innamorare.

Il racconto scorre cercando di evitare la battuta greve che cinematograficamente incombe sempre in situazioni del genere, ma contemporaneamente rifugge anche dal drammone che avrebbe potuto esplodere. Certo i protagonisti piangono e rimpiangono, ma la forza vitale di Farid/Lola permette di andare oltre, di comprendere per dirla con Fanny Ardant in un’intervista al giornale del festival che«il film non ci parla tanto di transessualità. Quello che ci dice è: tu hai una vita sola, vivila, con difficoltà e sofferenza, ma come ti piace».
E QUESTO è proprio il dato che rende affascinante il suo personaggio. Contraddittorio, spesso sopra le righe, talvolta «enchianti» (da pronunciare ensciantì) perché le/gli piace bere, ma legatissima a quel figlio che prima il destino, poi le sue scelte, infine la moglie defunta gli hanno impedito di veder crescere e conoscere.

E qui entra in gioco quella componente che solo i grandi attori possono avere: Fanny Aradant interpreta il suo ruolo come padre e come madre, superando qualsiasi opzione di genere, portando al film di Moknèche un contributo decisivo per condurlo oltre gli schematismi più immediati. Anche se, comunque la si voglia girare, la domanda ricorrente rivolta alla Ardant per questo film è «ma come si è sentita nell’interpretare una donna che era un uomo?». Per fortuna lei ha saputo andare oltre.