Interessante destino, quello di Roy Lichtenstein. Artista a una dimensione, programmato sui codici elementari della comunicazione mediatica, snon smette mai di svelare prospettive inattese su se stesso.

Si poteva pensare che dopo la grande mostra passata nel 2013 da Chicago a Londra e Parigi (recensita su Alias da Stefano Jossa il 18 marzo 2013), ci fosse poco da aggiungere, invece la mostra in corso alla Galleria d’Arte Moderna di Torino (sino al 25 gennaio, a cura di Danilo Eccher, catalogo Skira) riesce a essere «inattesa». Sin dal titolo – Roy Lichtenstein Opera prima – si intuisce che l’approccio non è banale. Infatti introduce subito un’ambiguità: «Opera prima» può essere inteso come qualcosa di fondativo, di minimo comun denominatore dell’universo di Lichtenstein. Ma andrebbe anche letto ribaltando i termini, e trasformandolo in un «prima dell’opera»: cioè tutto quel che riguarda il cantiere dei quadri più famosi dell’artista americano. Le due accezioni in realtà convivono, perché lo sperimentalismo proprio dei work in progress di Lichtenstein si muove all’interno di prototipi mentali non solo chiari ma anche dichiarati.

La mostra è quindi intrigante perché indaga su complessità e «problemi», laddove conosciamo Lichtenstein proprio per il suo procedere sempre per semplificazioni. Ma le due azioni non entrano mai in conflitto, anzi «lavorano» l’una per l’altra, come in un gioco di incastri in cui l’esito semplificato si rivela, a monte, più articolato di come sospettassimo.

Lichtenstein disegnava tantissimo, come racconta la moglie Dorothy nella breve testimonianza in catalogo. Disegnava ovunque, anche a casa, dopo tutta una giornata passata in studio. Strano a dirsi per un artista «parassita», che succhiava da altre immagini, a partire dalla mitica appropriazione dei fumetti, scoperti a quarant’anni vedendoli in mano ai figli David e Mitchell. Ma le immagini per Lichtenstein costituiscono soprattutto momenti di attivazione di un lavoro che il percorso della mostra svela in tutta la sua sorprendente coerenza e disciplina. Diceva che «gli oggetti sono segni da organizzare, collegare e ricostruire in una visione unificata». E, ovviamente, assolutamente bidimensionale. È interessante notare come il procedimento preparatorio di Lichtenstein non preveda tanto l’appunto visivo o lo schizzo, ma si protenda subito in quello che Bernice Rose, nel saggio di catalogo, definisce enclosure drawing. I disegni infatti sono spesso chiusi dentro celle spaziali (il prestito dalla geometria propria dei fumetti è ben evidente) che richiamano già le proporzioni della tela finale e che vengono ricavate all’interno del foglio di carta. È dentro quelle celle, disposte senza un ordine preciso, che Lichtenstein lavora all’organizzazione delle sue visioni. Un lavoro che Diane Waldman, tra le maggiori conoscitrici del Lichtenstein disegnatore, ha sintetizzato come «unione di un’immagine reale con una forma astratta».

Lo schema della cella riquadrata sul foglio con un segno nero più o meno deciso si ripete quasi per istinto anche laddove Lichtenstein sembra mettersi più disteso e libero, come nel caso della bella serie di cieli a matita e pastello del 1964 che troviamo in apertura di percorso. Trent’anni dopo, per il Chinese style landscape (Study), il dispositivo è ancora assolutamente lo stesso. Spiega Bernice Rose in catalogo: «L’artista costruì un mondo nuovo, strutturato su queste immagini, ma la sua costruzione dipendeva dalla creazione di una nuova realtà nella sua interezza. Perché questo accadesse, l’oggetto andava rimosso dal suo contesto abituale e scomposto nei suoi elementi costruttivi. Ecco perché Lichtenstein ripeteva che i suoi oggetti erano innanzitutto segni da organizzare, collegare e ricostruire in una visione unificata».

L’interesse della mostra consiste proprio nella messa a nudo di questo processo e nel disvelamento di quella coerenza interna propria delle immagini, mai create ab novo ma sempre rimontate da Lichtenstein. È questa coerenza che determina quel senso «sempre nuovo» delle sue opere, sulle quali il tempo sembra non lasciare nessuna patina. Figlie di una stagione ben identificata culturalmente e sociologicamente, in realtà riescono a sfilarsi da quell’identificazione. Il percorso si popola così di tante, continue reinvenzioni di quel mondo che Lichtenstein aveva davanti agli occhi. Un mondo in cui le immagini non hanno più gerarchie, perché sono tutte chiamate indistintamente a far parte di questa «nuova realtà». Emblematica, ad esempio, è quella sontuosa carta (sontuosa anche per le sue dimensioni: m. 2,44 di altezza) Picture and Pichter (Study) del 1978. Qui Lichtenstein ricorre a un meccanismo linguistico sofisticato, in quanto rappresenta sullo sfondo della brocca picassiana un suo quadro filtrato dal consueto lavoro di ricomposizione. Eppure l’immagine s’impone al nostro sguardo, – sinceramente ammirato, con chiarezza stilistica e senza nessuna ambiguità concettuale.

L’unico appunto da fare alla mostra è la compressione del percorso, che a un certo punto crea un inganno per via della sala alla fine del primo corridoio, in cui ci troviamo davanti un gioiello come il Landscape with boat del 1996 (con i relativi lavori di cantiere). La tela appartiene all’ultima stagione, straordinariamente rarefatta, di Lichtenstein. Quell’apparizione anticipata, da una parte crea un cortocircuito nell’occhio del visitatore, dall’altra, però, finisce con il darci la conferma di quanto sia coerente e tutta sempre perfettamente concatenata la parabola di Lichtenstein.