Licenziamenti collettivi legittimi ma l’impianto del Jobs Act è da rivedere. In conseguenza di una pronuncia della Corte d’appello di Napoli, che aveva censurato la disciplina dei licenziamenti collettivi come anche le conseguenze della violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero, la Consulta ieri ha sentenziato che la procedura è fondata. In sintesi, non ci sono violazioni della legge delega sia nei casi di licenziamento individuale che collettivo.

La legge spot del governo Renzi escludeva la possibilità del reintegro del lavoratore, prevedendo un indennizzo economico basato sulle mensilità percepite (non può essere inferiore a 6 né superiore a 36 retribuzioni). Anche su questo ha risposto la Consulta giudicandolo «non inadeguato». Per quanto riguarda le altre questioni sollevate dalla Corte d’appello di Napoli, la Consulta considera non fondata anche la censura di violazione del principio di eguaglianza. Nonostante tra gli assunti con il Jobs Act e quelli con la disciplina precedente ci siano diritti diversi (a sfavore dei primi), nella sentenza si afferma che la legge «è orientata a incentivare l’occupazione e a superare il precariato ed è pertanto prevista solo per i “giovani” lavoratori». Secondo la Consulta, quindi, il legislatore non era tenuto a estendere la legge anche a chi era già in servizio. Anche se sul concetto di «giovani lavoratori» non c’è unanimità, dato che non ci sono limiti di età per applicare il Jobs Act.

Sarebbe più corretto parlare di nuovo regime che viene sottoposto anche a lavoratori e lavoratrici non alla prima esperienza e avanti con gli anni. I renziani rimasti hanno esultato all’unisono. Perseverando però nell’attribuire alla loro legge effetti che, secondo diverse ricerche, non ci sono stati. Per Raffaella Paita, senatrice di Italia Viva, «qualcuno, soprattutto a sinistra, dovrebbe scusarsi e prendere atto che la riforma del governo Renzi ha ridotto la precarietà e creato centinaia di migliaia di posti di lavoro a tempo indeterminato». Davide Faraone attacca «Cgil e certa sinistra» per i quali «doveva produrre danni al Paese». Anche Enrico Borghi rimarca il suo recente passaggio dal Pd a Iv affermando che «la critica serrata al Jobs Act fu la punta della battaglia lanciata dalla sinistra Pd contro la leadership del governo Renzi».

Maurizio Landini
Un referendum per abrogare leggi folli, compresa la riforma renziana, con una nuova formulazione per la reintroduzione dell’articolo 18

La sentenza però dice anche altro. La Corte ha invitato il legislatore a intervenire, segnalando che «la materia, frutto di interventi normativi stratificati, non può che essere rivista in termini complessivi, che investano sia i criteri distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro, sia la funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate fattispecie». Il Jobs Act, rispetto a quanto ideato dall’allora ministro al lavoro Poletti, ha subito negli anni modifiche. Tuttavia rimane l’impianto che ha fatto, secondo ricerche anche della Banca d’Italia, aumentare i contratti a tempo determinato del 60% (mentre sono diminuiti gli indeterminati) e i licenziamenti con un calo della «quota salari» in mano ai lavoratori.

Il segretario della Cgil Landini ha ipotizzato «un referendum per abrogare leggi folli, compreso il Jobs Act», con una nuova formulazione del quesito, giudicato inammissibile dalla Corte nel 2017, per la reintroduzione dell’articolo 18. «Ogni strumento è buono per combattere la precarietà, anche il referendum. Stiamo valutando» ha detto Landini a margine di un’iniziativa della Fp Cgil, lo scorso 16 gennaio.