Nel maggio dello scorso anno Luci Tapahonso è stata insignita della carica, appena istituita, di Poet Laureate della nazione navajo. Le ragioni di questo riconoscimento emergono in tutta evidenza dalla lettura della raccolta di poesie e racconti Sáanii Dahataal. Le donne cantano, (ben) tradotta e curata da Silvia Mancini, e uscita nella collana «Crossroads» dell’editrice Quattroventi di Urbino (euro 18,00). Attraversando la geografia polverosa e quasi per nulla pittoresca della riserva – se non fosse per qualche improvvisa epifania, per esempio accesa da «minuscoli corpi di luce» sorpresi a illuminare con la loro «magia» il momento che «precede l’alba grigia» – riprodotta dalla scrittura volutamente anti-poetica (almeno secondo i canoni comuni) di Luci Tapahonso, si comprende anche il perché del ritardo con cui l’autrice è riuscita ad assurgere alla gloria nazionale (navajo) e a un’ancora modesta fama internazionale, tant’è che Sáanii Dahataal è la sua prima opera tradotta in italiano, e che comunque anche la critica americana finora se ne è curata in modo piuttosto discontinuo. Non che Tapahonso non sia «rappresentativa» di una cultura, quella nativo-americana in generale e navajo in particolare, che negli ultimi decenni ha sempre esercitato un considerevole fascino sia sul pubblico statunitense sia su quello italiano: anzi, la difficoltà di affermarsi come voce al tempo stesso distintamente individuale e collettivamente emblematica dipende proprio dalla sua adesione diretta e non mediata alla realtà tribale contemporanea, senza concessioni ad alcuna forma di esoticizzazione spettacolare o di eroica auto-celebrazione cui soprattutto i lettori nostrani sono predisposti ad attendersi dall’evocazione di quel mondo navajo che per loro (per noi) non può non richiamare l’immagine romanticizzata di «Aquila della notte» – Tex Willer.

La cifra stilistica di Tapahonso è infatti ispirata da una poetica che potremmo definire quasi materialistica, diretta a riprodurre con affettuosa attenzione anche i minimi dettagli dell’esistenza quotidiana, tutt’altro che avventurosa, dei pueblos navajo. Soprattutto nei brevi racconti ci troviamo a percorrere i tragitti esistenziali di personaggi (apparentemente) ordinari, impegnati nel ritagliare con fatica un senso da eventi o situazioni di per sé irrilevanti – il ricordo infantile delle spedizioni in città per le spese casalinghe; il furto di un cane, che si conclude con il suo ritrovamento, salvo poi scoprire che si tratta di una femmina e non del maschio sottratto, ma senza che questo impedisca di accoglierla festosamente nella famiglia; o il ritratto di un vecchio cowboy con la passione per l’«ascolto» delle storie altrui, che quando prende la parola usa l’antica lingua navajo, quella «che non si sente quasi più». Proprio questa nostalgia per un linguaggio a rischio d’estinzione sostanzia la ricerca formale di Tapahonso che, fenomeno quasi unico nel panorama letterario nativo-americano contemporaneo, non scrive direttamente in inglese, ma traduce dal navajo, cercando per quanto possibile di conservarne la componente ritmica, fondata sull’iterazione e sulla ripetizione – caratteristiche tipiche dei canti tradizionali. A volte il lessico si piega di fronte all’intraducibilità quasi proverbiale del navajo (basti pensare ai leggendari code talkers della Seconda guerra mondiale, impiegati per comunicare tramite messaggi cifrati che il nemico era assolutamente incapace di comprendere), e allora l’inglese cede il passo, con subitaneo code switching, a parole liquidamente vocaliche, così aliene per gli orecchi anglofoni.
L’alternanza linguistica segnala la natura inerentemente ibrida dell’identità «indiana», la cui appartenenza al mondo angloamericano è ormai data per acquisita dagli stessi membri della comunità navajo, ma senza che questo impedisca la sopravvivenza di molti tratti distintivi della propria memoria culturale, talvolta dialoganti e talaltra apertamente in conflitto con il contesto della contemporaneità. Quando alla superficie del testo affiorano queste frizioni, viene a manifestarsi una componente spirituale, se non proprio soprannaturale, che può sorprendere chi legge per il suo configurarsi in termini di «normalità», anziché di straordinaria eccezione. I versi sembrano scorrere lungo un doppio binario che spesso si interseca, creando uno scambio osmotico che include anche la tradizione euro-americana, persino quella classica, come nel caso di una Leda indiana di cui si infatua non Zeus, ma un cowboy da rodeo, che la segue attraverso un arido paesaggio trasfigurato dall’«assoluta bellezza delle storie antiche» – ed è impossibile distinguere da quale eredità esse discendano.

Il «sense of place», quel legame indissolubile con una concretissima terra non di rado inospitale, o addirittura desolata, ma sempre avvertita come unico luogo che consenta la piena articolazione del sé individuale e collettivo per la profondità di memorie ancestrali in esso sedimentate, viene così ad assumere un’ulteriore dimensione, quella di immaginazione di uno spazio in-between, di un territorio che va cantato per la feconda complessità di interazioni cui si offre quale sfondo partecipe – come attore protagonista, e non solo come palcoscenico.