In un libro sfuggito agli editori italiani, Les styles di Philippe Jullian, l’eccentrico biografo di Oscar Wilde e di Jean Lorrain faceva la deliziosa caricatura d’un salotto Art Nouveau. La vignetta s’intitolava I consigli del conte Robert de Montesquiou e raffigurava il conte seduto su un divano dalle gambe gracili e sinuose fatto, sembrerebbe, «più per sostenere anime che deretani», sullo sfondo è un cespo di linee curve terminanti in pampini e germogli d’ogni sorta, tanto arzigogolato quale né Zimmermann né Cuvilliés né i più sregolati decoratori rococò avrebbero mai potuto concepirlo; al centro, la padrona di casa: una figura tutta spirito, sottile, sottile come una statuetta etrusca. «È facile prendersi gioco del 1900» scrive Jullian e, in effetti, questo universo uliginoso e svaporato, fatto di vasi «soffiati» e traslucidi come uova di pesce, di lampadari a pistilli, di fiori fossilizzati su stoffe dai toni pallidi sembrerebbe essere nato già con il parassita della maniera.

A cura di Parisi e Villari

Tanto più meritoria è dunque una mostra come quella organizzata, a Reggio Emilia, dalla Fondazione Palazzo Magnani, Il Liberty in Italia, artisti alla ricerca del moderno (fino al 2 aprile, a cura di Francesco Parisi e Anna Villari, catalogo Silvana Editoriale), dove non ci viene sgranata la solita ecolalia di motivi floreali ma un fascio di soluzioni artistiche diverse. «Non si può parlare – ci informano, infatti, i curatori – nelle arti figurative e decorative di una univoca corrente italiana, come avvenne invece oltralpe» ma piuttosto d’una multiforme varietà, frutto di un «apprendistato tradizionale e rigorosamente accademico» sul quale si innestavano, oltre alla specificità delle scuole regionali, «nuove sperimentazioni formali e piccoli e occasionali prelievi di impronta straniera». Per darne conto, la mostra è stata efficacemente divisa in otto sezioni, ciascuna dedicata a un’arte (la pittura, la scultura, la ceramica, l’architettura, la pittura decorativa, l’incisione, il cartellonismo e l’illustrazione). La qualità delle opere esposte, laddove non è altissima (come lo è, fra gli altri, nei casi di Vittorio Zecchin e di Alberto Martini), è sempre alta o quantomeno assai prossima a esserlo. Il che è meno ovvio di quel che può credersi, giacché la maggiore tipicità di un’opera va, generalmente, a discapito della sua qualità estetica. Qui invece è una bellissima Annunciazione di Zecchin, un olio su tela che è come un incastro di finissime falde di colore: grande poco più del Talismano di Sérusier, è, come questo, un paesaggio alla luce d’una interna visione. Di Zecchin è anche una fantasia d’aironi e di fiori, dove le corolle paiono delicati rosoni di cattedrali della terra di Lilliput. C’è anche un Sartorio fra i più belli: niente ginnasti ricciuti, solo una sinfonia di bianchi e celesti.

Ma si potrebbe continuare: in una sala si ammirano i progetti di case le cui decorazioni soffocarono, in un’unità vegetale, quel che Des Esseintes aveva ereditato dall’eclettismo settecentesco, da John Soane, da William Beckford. In un’altra si ammirano libri illustrati d’artisti: Gesamtkunstwerk dove si fondono lettere e immagini. Nella sezione dedicata ai cartelloni, un’opera si ricorda più di altre per l’unione d’avanguardia tecnica e di kitsch: è il manifesto pubblicitario delle pastiglie Panerai e raffigura la Dea Salute, aligera e drappeggiata, che si è adattata a vendere compresse, come lo Zeus di Heine si era rassegnato a mercanteggiare pelli di coniglio.

Di stanza in stanza ci si accorge delle piccole costellazioni che le opere vanno formando. Fra gli incisori, ad esempio, si vede De Carolis partire dai preraffaelliti e finire, quasi, all’emblematica, ad Andrea Alciato o a Cesare Ripa; accanto a lui, quasi naturalmente, si dispongono Francesco Nonni e Antonio Moroni, vicini come lui alle sinuosità liberty, mentre in Aristide Sartorio e, soprattutto, in Luigi Bonazza si raccoglie l’eco secessionista. Più antichizzanti appaiono, invece, un ritratto di Giovanni Costetti e il San Giorgio di Armando Spadini (che Carrera, nel catalogo, descrive come una reminiscenza vaga del San Giorgio di Crivelli quando è, invece, una copia quasi letterale di uno dei tre arcangeli raffigurati con Tobiolo nel quadro di Botticini agli Uffizi).

Questa mostra si rivela, insomma, quasi come il complemento di un’antologia poetica, ormai rara: Dal Simbolismo al Déco, che Glauco Viazzi curò per Einaudi molti anni fa. Lì Viazzi tentava, come oggi i curatori dell’esposizione, di isolare alcune tendenze specifiche nella vasta area culturale che, tra la fine del XIX e il principio XX secolo, in Italia rispose attivamente alle sollecitazioni dei grandi centri artistici d’Europa. Lì era poesia, qui è arte, ma il tentativo è simile e similmente encomiabile. Artisti e letterati erano accomunati, d’altra parte, da una vivace ricerca del nuovo che li esponeva a influenze varie e diversa: ciò fu all’origine dell’eterogeneità delle esperienze. Lo stesso Vittorio Pica pubblicava nel 1890 una raccolta di saggi su autori diversissimi (vi erano, tra gli altri, Zola, Péladan, Mallarmé e Tolstoj), adunandoli tutti sotto una medesima categoria, che dava il titolo al libro All’avanguardia.

Ma Boldini non c’è

Anche nelle opere esposte a Palazzo Magnani s’incontrano dunque influenze variegate – secessioniste, simboliste, neomanieriste – fra le quali ci fanno da guida puntuale i saggi del catalogo, dove di ciascuna opera si seguono le diramazioni e si additano modelli e discendenze. Sarebbe forse stato auspicabile, tuttavia, che gli autori medesimi avessero esercitato meno draconianamente la virtù della sintesi nel preparare i pannelli delle varie sale, e specialmente delle più ampie, dedicate alla pittura e alla scultura. O che avessero esposto accanto alle opere qualcuna delle schede che possono leggersi alla fine del catalogo. Giacché, se al visitatore più smaliziato, per orientarsi, sarà sufficiente sapere che in quella tale sala gli artisti furono contesi chi dalla voga preraffaellita chi dagli esempi secessionisti, il meno preparato si troverà forse a ripetere, di tanto in tanto, la frase di Don Abbondio a proposito di Carneade. E non è una supposizione tanto lontana dal vero, se, entrando nella sezione dei ritratti, ho trovato un signore che a ciascun quadro esclamava: «Questo uesto deve essere Boldini!», e di Boldini, naturalmente, non v’era una sola tela.

I pannelli rivolti all’arte dell’incisione, del manifesto e della ceramica, curati rispettivamente da Parisi, da Villari e da Eugenia Querci, sono mirabili per la precisione che mostrano nel distribuire le opere fra le diverse correnti, ma in altri casi i riferimenti alle varie scuole rimangono riservate ai lettori del catalogo. E in una mostra nella quale si incontrano opere così differenti e originali (nella medesima stanza sono posti ad esempio, quasi uno a fronte dell’altro, Paolo Antonio Paschetto e Lorenzo Viani), qualcuno, persa l’orientazione, potrebbe abbandonarsi al puro piacere dello sguardo e mancare l’occasione più bella che dà quest’esposizione: comprendere come il liberty in Italia fu una ricchissima polifonia. Vi è l’audioguida, certo, ma molti visitatori non amano portare questo genere di basto mentre passeggiano per le sale di una galleria. E io non mi sentirei di dar loro troppo torto. A chi non conosce bene il liberty, insomma, sarà necessaria un po’ più di pazienza del consueto: non se ne abbia a male, l’alta qualità scientifica della mostra lo ripagherà dello sforzo.