Nella memoria di una bambina di cinque anni, un padre coraggioso che durante la guerra civile in Liberia porta lei e le sue sorelle in salvo con una lunga marcia diventa un gigante che fa di tutto per difenderle dai draghi (il tiranno e i ribelli), coadiuvato nel suo atto eroico dalle impavide figure femminili della famiglia e della nazione, che giocheranno ruoli fondamentali nella cura, protezione e sopravvivenza dei fuggitivi: la nonna prima, che li nutre e nasconde nel villaggio degli avi al di là del fiume, la madre e la giovane miliziana Satta poi, che sfideranno i guerriglieri e metteranno a repentaglio le loro stesse vite pur di farli espatriare.

DAL PUNTO DI VISTA della giovane Tutu e compiendo salti temporali e spaziali per un arco di trent’anni, I draghi, il gigante, le donne (edizioni e/o, pp. 281, euro 18) ripercorre dunque una vicenda pubblica sanguinosa e complessa (il conflitto, suddiviso in prima e seconda guerra civile, si protrasse nel complesso dal 1989 al 2003, causando la morte di quasi un milione di persone e la diaspora liberiana di altrettanti sfollati fuori dal paese e dal continente), ammantandola a tratti di un alone quasi fiabesco, che possa, per quanto possibile, tenere le sue più giovani vittime lontano dall’orrore.
A differenza del suo primo romanzo, She Would Be King, in cui aveva raccontato la tumultuosa storia del suo paese con una sorta di realismo magico affidandola a tre supereroi, qui Wayétu Moore recupera tratti di vissuto personale della sua infanzia e si avvicina più a un realismo mimetico, convinta del potere salvifico della narrazione, per sé, per la sua famiglia e per le generazioni a venire, ma al tempo stesso assume toni diversi a seconda che le vicende siano un’interpretazione dell’autrice bambina o di quella adolescente, migrata negli Stati Uniti, e infine donna volontariamente rientrata in patria.
Nel giorno del suo quinto compleanno, Tutu crede ancora che la dolcezza della Liberia sia ineguagliabile, «più dolce dei residui di mango maturo che mi ritrovavo tra i denti dopo aver succhiato il succo di ogni pezzetto appiccicoso, più della caramella mou della nonna che mi si scioglieva sulla lingua, più del pan di zucchero, persino più dell’America, all’epoca non c’era nulla che avesse lo stesso sapore del mio paese. Questo era tutto ciò che sapevo di casa mia a quel tempo: vivevo in un posto così dolce da far cantare le parole».

QUANDO PERÒ LO SCOPPIO della guerra costringe la famiglia ad una fuga attraverso il bosco, gli adulti cercheranno di edulcorare l’atroce realtà agli occhi delle bimbe narrando loro storie, tra cui quella di Giona e la balena e la leggenda del drago Hawa Undu che «era un bel principe, imponente e dalle spalle larghe, gli zigomi alti e le mani ruvide segnate dalle vittorie in battaglia». Hawa Undu è il nome con cui la narratrice-bambina si riferisce poi al despota Sam Doe, governatore della Liberia, divenuto crudele drago così come i ribelli che gli si oppongono, fino a che la sua cattura sanguinolenta, descritta con raccapriccianti dettagli, segnerà un doloroso e precoce passaggio anche per lei al piano della realtà «degli adulti».

IN AMERICA L’AUTRICE, e con lei la sua protagonista, fanno esperienza del razzismo, tra code all’ambasciata e all’ufficio immigrazione, rivivono il trauma della guerra sotto forma di incubi, e come per molte coetanee nere, solo dal confronto con l’alterità avviene la riscoperta delle origini e dell’identità, di pari passo con le prime pene d’amore. Ma il richiamo di casa, tra i ricordi di zuppa di arachidi e fumo che saliva dalle pentole a carbone, e gli inconfondibili odori di Monrovia, un misto tra linfa fresca di caucciù, verdure fritte e sudore, si fa sempre più insistente…