Come un’unica onda che miscela indissolubilmente vissuto autobiografico e collettivo, affondo politico e umana accoglienza, impulso spietato all’azione e riflessione.

Sia quando il suo sguardo di regista e il suo ventre rotondo di donna incinta si fanno corpo del film fin dall’incipit – sulla pancia è dipinta in arabo la parola «misericordia» – sia quando sfidando i poliziotti che vogliono impedirle di filmare si posiziona sul tetto di un palazzo per abbracciare il pulsare infinito e magnifico delle donne nella protesta di piazza Tahrir – è il 2012 («siamo l’utero della rivoluzione») – ; sia quando è in strada, camera a mano, a smascherare il volto di ogni singolo molestatore che incontra, quando dall’interno dell’auto mostra all’uomo un coltello, quando è una tra le tante attiviste in corteo, nelle discussioni a casa o al centro antiviolenza, o quando, cercando con desiderio tra gli spazi vuoti della casa, si rivolge alla madre scomparsa e ne percepisce con dolore l’esistenza priva di diritti e di coscienza di sé, pur ricordando con rabbia i dettami tradizionalisti e repressivi con cui l’ha cresciuta…

As I Want, il documentario di Samaher Alqadi il 22 novembre nella sezione concorso internazionale al Festival dei Popoli diretto da Alessandro Stellino, irradia complessità e inseparabilità delle singole tessere di quel mosaico pulviscolare che è la liberazione delle donne dalla violenza di genere, mosaico la cui comprensione secondo angolature sempre più approfondite e altre è la condizione stessa dell’evoluzione umana, di ogni rivoluzione. In questo il cinema può dare respiri e vie di fuga dal peso immane della lotta.

Per farlo bisogna però guardare millimetricamente nel dettaglio, andare oltre il già percepito e consolidato, essere scultrici e scultori dello sguardo. E Alqadi – filmmaker di origini palestinesi, cresciuta in Egitto – ci invita a fare attenzione a cosa accade al Cairo in una delle manifestazioni contro il regime post-rivoluzione del 2011. Siamo in un’affollatissima piazza Tahrir e un piccolo cerchio rosso – grafica in sovrimpressione in un filmato delle news – evidenzia che in quel minuscolo spazio vitale si sta consumando uno stupro di gruppo.
Una violenza perpetrata dunque pubblicamente e diffusamente in queste situazioni, eppure occultata e negata da un’intera società come dalle forze dell’ordine. Una violenza endemica come lo è la violenza di genere in Egitto e nel mondo, e insieme una ferita indicibile alla singola donna e al corpo politico collettivo delle donne: dove se la madre della filmmaker era stata cresciuta nella convinzione che far sentire la propria voce fosse una vergogna, le donne sono colpite proprio nella piazza in cui gridano tutta la loro ribellione a questo stato di cose.

Per intessere tutto questo Alqadi è impegnata in un continuo, duttile, anche se a volte troppo forsennato riposizionamento di se stessa e della telecamera a mano, in una ricerca che attinge a varie tracce del documentario contemporaneo, tra intarsi di homemovies e micro-ricostruzioni legate ai suoi bui vissuti adolescenziali. Ecco allora che la telecamera talvolta è scudo di protezione e arma, strumento spietato di affermazione di sé e attestazione di reato, come nella scena di notte al posto di blocco con un ufficiale che sta per aggredire sessualmente lei e la sua amica, o in quella in cui avvisa un molestatore per strada che sarà lei a seguirlo ossessivamente filmandolo.

Ancora la macchina con cui riprende è specchio di se stessa in una stanza in bianco e nero della memoria, una stanza dove sua madre è morta, dove lei ha dato alla luce il primo figlio e dove ora allatta. Ma cercherà vibranti riflessi anche sui volti delle bambine al parco, mentre loro già raccontano di essere state istruite a nascondere il proprio corpo, anch’esso vergogna, altrimenti il loro futuro marito divorzierà. Altrove si farà riprendere dal figlio per spiegargli perché ha denunciato alla polizia l’uomo che per strada le aveva messo le mani addosso.

Spiegare a suo figlio maschio cui non sembra un motivo sufficientemente grave, in un Paese in cui in una manifestazione si vanta la capacità delle donne egiziane di partorire eroi: ecco il riverbero più luccicante. Come liberare se stessa ragazzina, un uccellino cui era rimasta impigliata un’ala, una donna in bianco che danza su se stessa ricordando Francesca Woodman, come essere consapevole di essere ora lei quella che filma, quella che sceglie, quella che nonostante la resistenza ancora immane crea consapevolmente un mondo a modo suo.