Come quello di Sofia Coppola, Harmony Korine, Gus Van Sant e Spike Jonze, il lavoro di Andy e Lana Wachowski riflette una profonda affinità elettiva con lo zeitgeist del momento. Specialmente quella dei giovani. Lo hanno dimostrato con grandissimo successo nei Matrix e in modo meno riuscito in Cloud Atlas e Jupiter Ascending. E lo dimostrano in modo affascinante nel loro ultimo lavoro, Sense8, una serie tv di 12 puntate, l’ennesima prova delle altissime ambizioni di Netflix (la serie non a caso sarà fra gli eventi del lancio della piattaforma di video on demand in autunno anche nel nostro paese) nella produzione per il piccolo (e grande) schermo.

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Decisamente più cinema che televisione (un cinema espanso, che ricorda l’affresco multiplo, a moltiplicazione infinita, delle Mille e una notte di Miguel Gomez, recentemente presentato a Cannes), Sense8 è il risultato della collaborazione tra i Wachowski e J. Michael Straczynski, creatore della serie TV Babylon 5. Ambientato tra Mumbai, Seoul, Chicago, Città del Messico, San Francisco, Berlino, Nairobi e Londra, è uno struggente, colossale, ibrido fra buddismo e sci-fi; un puzzle modulato con il respiro di una libera sinfonia a più personaggi, che esistono a migliaia di chilometri di distanza uno dell’altro, e che si fondono, letteralmente, uno nell’altro, secondo principi non codificati e non sempre prevedibili di empatia, necessità pratica e desiderio.

Se la seconda stagione di True Detective e Wayward Pine alludono in modo molto riconoscibile al modello Twin Peaks, (eccettuati alcuni episodi di True Detective 1) la prima serie che riesce veramente ad arrivare al pianeta alieno di David Lynch è questa. Non a caso, nel montage su cui scorrono i credit di apertura di ogni episodio, tra le immagini di varie capitali del mondo e folle di ogni religione e colore, si stacca a un certo punto sull’insegna rosa forte di un diner, che si chiama…Twin Peaks. Anche se, nel suo slancio romantico (un’altra cifra dei Wachowski) e nello spirito New Age, Sense8 ricorda piuttosto la bella miniserie di Oliver Stone e Bruce Wagner, Wild Palms (1993).
Diverso dal serial lynchiano anche il look di Sense8, più orientato verso un’immagine ariosa, realistica (dietro alla macchina, il dp abituale dei Wachowski, John Toll, affiancato dai tedeschi Christian Almesberger e Frank Griebe), per evocare un’impressione di continuo movimento, flusso spontaneo e inafferrabilità.

Inafferrabile è, almeno agli inizi anche «la storia», che sfida le regole della televisione molto scritta e della drammaturgia a episodi per spostarsi di personaggio in personaggio, di città in città, come un reality globale, un po’ nello spirito del pioniere del genere, la serie MTV The Real World. Solo molto più avvincente.

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Forse in omaggio alla biografia di Lana Wachowski (nata Laurence) e ancora di più al tema sotteso e molto au courant della serie, e cioè quello dell’identità fluttuante, il personaggio emblematico di Sense8 è Nomi (Jamie Clayton) un hackivista transgender di San Francisco che, nel primo episodio, inizia ad avere strane visioni/transfer in cui si trova fisicamente immedesima in quello che stanno vivendo degli sconosciuti dall’altra parte del mondo.

Gli altri 7 sensate sono una donna d’affari coreana (l’attrice Doona Bae), un autista congolese (Aml Ameen), una star di telenovela messicana che nasconde di essere gay (Miguel Angel Silvestre), un party boy tedesco (Max Riemelt), una dj islandese (Tuppence Middleton), un poliziotto chicagoano idealista (Brian J. Smith) e una ragazza indiana (Tina Desai) che non è sicura di voler sposare l’uomo ricco e gentile scelto dalla sua famiglia.

Uniti da un’indecifrabile visione comune –Daryl Hannah, un po’ sirena a Manhattan che dà alla luce un bambino in episode 1-, protetti da un guardiano psichico (Naveen Andrews, da Lost) i sensate, iniziano poco a poco a «sentirsi» , l’un l’altro, a parlarsi, i cliché sociali e culturali che incarnano a trasmigrare internamente tra di loro. A Berlino, Wolfgang si sveglia improvvisamente affamato del cibo indiano del banchetto nunziale della sposa di Mumbai. Il pollo che l’autista di Nairobi riceve come pagamento per un viaggio un pullman, svolazza sulla scrivania della businesswoman di Seoul, la cui conoscenza delle arti marziali torna utile quando un altro sensate, nell’emisfero opposto, viene assalito da una gang…E, nell’episodio numero 6, scene di sesso che avvengono in diversi continenti si fondono in un amplesso corale.

I Wachowski non si danno regole, e non le danno allo spettatore, il che significa che ci vuole un po’ ad abituarsi alla spontaneità del flusso. Ma, quando dopo qualche puntata, si inizia a conoscere i personaggi, seguire l’intarsio multiplo di identità abbandonandosi a questa versione molto sui generis di un cliffhanger, diventa più facile e appassionante. Come già in Cloud Atlas, i Wachowski investono infatti molto sui personaggi. Poco a poco veniamo a conoscenza delle loro storie.E abbiamo voglia di seguirle, nel loro ipnotico, spericolato, equilibrio di unicità individuali e tutt’uno.

A un equilibrio del genere forse pensava anche Alejandro Inarritu in Babylon, ma l’esperienza immersiva, sensuale, «calda» e generosa di Sense8 è l’opposto del freddo, accondiscendente, film del regista di Birdman.