Nizar Hassan, giovane economista, è uno degli esponenti più noti del campo progressista delle proteste popolari in corso in Libano contro corruzione e carovita. I suoi podcast raccontano il disastro libanese e ciò che desidera una popolazione disperata che per 1/3 vive sotto la soglia di povertà. Gli chiediamo al telefono di spiegarci come i libanesi guardano al negoziato che il governo sta conducendo con il Fondo monetario internazionale (Fmi) volto ad ottenere un vitale finanziamento da 10 miliardi di dollari. «In Libano tutto è polarizzato» ci dice «Inevitabilmente la trattativa tra il governo e l’Fmi è vista da alcuni come un passo necessario per uscire dalla crisi economica e finanziaria e invece da altri come un’autostrada che porterà il Libano a cadere nelle braccia dell’imperialismo. Alla fine della giornata però tutti i libanesi guardano a cosa hanno potuto mettere a tavola».

 

La trattativa con l’Fmi è fondamentale poiché potrebbe determinare il futuro economico e anche l’allineamento geopolitico del paese. Da qui lo scontro, anche su questo punto, tra le forze filo-Usa del fronte “14 marzo” e quelle del fronte “8 Marzo” che fanno capo al movimento sciita Hezbollah alleato di Siria e Iran. Scontro sfociato nella disputa – che frena i colloqui con l’Fmi – tra il governo del premier Hassan Diab (sostenuto da Hezbollah) e la Banca centrale sull’entità delle perdite nel sistema bancario. L’esecutivo le stima in 62 miliardi di dollari calcolandole al tasso di cambio attuale della lira libanese che si è svalutata dell’80% rispetto al dollaro. La Banca centrale parla di «cifra gonfiata». E da qui si sono fatti pochi passi in avanti. Accusato dagli avversari di aver ostacolato, in una prima fase, la trattativa con l’Fmi, il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, la scorsa settimana ha affermato che la sua organizzazione non porrà veti a una intesa sul finanziamento da 10 miliardi di dollari e neppure a un aiuto «sincero» degli Usa al Libano.

 

Sullo sfondo è in corso una partita politica e strategica decisiva. Lo sanno bene gli israeliani, spettatori molto interessati e sostenitori delle sanzioni economiche di Donald Trump per strangolare l’Iran, la Siria di Bashar Assad e Hezbollah, la “Mezzaluna sciita” nemica di Usa, Israele e Arabia saudita. Trump, ha scritto su Haaretz Zvi Barel, tra i principali analisti israeliani, «ha deciso di neutralizzare Hezbollah anche a costo di distruggere Libano…La politica di Trump volta a estromettere Hezbollah dal governo libanese è chiara. In una intervista – aggiunge Barel – con la televisione saudita Al-Hadath, l’ambasciatrice Usa in Libano, Dorothy Shea, ha accusato Hezbollah di destabilizzare il paese e di mettere a repentaglio la sua ripresa economica…ha aggiunto che Washington sosterrà qualsiasi governo riformista non controllato da Hezbollah». In poche parole, fa capire l’analista, gli aiuti andranno al Libano solo se Hezbollah non sarà più nell’esecutivo.

 

Placata la rabbia, Nasrallah ha reagito con prudenza, suggerendo di rilanciare la produzione agricola e l’industria nazionale, proponendo alternative all’Fmi e agli Usa e invitando a guardare ad oriente, a Pechino. «Se la Cina investirà in Libano, ciò non significa che trasformeremo il Libano in un paese comunista» ha spiegato. Nella polarizzazione libanese i suoi suggerimenti hanno raccolto le reazioni entusiastiche dei sostenitori e la bocciatura inappellabile degli avversari. «Comunque sia» commenta laconico Nizar Hassan «la popolazione sa che chiunque finanzierà il Libano lo farà solo per favorire i suoi interessi e non a beneficio del nostro paese».