Con la drammatica esplosione del 4 agosto al porto di Beirut che ormai conta più di 200 morti, è andata in pezzi una città e una grande finzione. Da ieri il Libano, con le dimissioni dell’esecutivo guidato da Diab – a dire il vero l’ultimo dei premier arrivati, in carica solo dal gennaio scorso e capro espiatorio di tutte le malefatte precedenti – non ha più un governo, che forse latitava da troppo tempo e probabilmente non ha mai avuto davvero uno Stato.
A questo punto l’interrogativo che si pone è se questa crisi avrà uno sbocco politico o sarà l’ennesima delusione delle piazze arabe, un’altra tardiva primavera soffocata dentro una calda estate. La questione di fondo è se il movimento che nelle strade chiede insistentemente la liquidazione di una intera classe politica inetta e corrotta abbia davvero in mano qualche idea concreta e condivisa per sostituirla.

Dicono che nelle piazze è scesa quella che comunemente viene chiamata la società civile, quella parte sana della nazione che punta a un totale rinnovamento dopo essersi liberata dalle divisioni confessionali e di clan. Ed è indubbiamente questo il Paese che la settimana scorsa ha accolto con entusiasmo la visita del presidente francese Macron, il quale ha organizzato con le Nazioni unite la videoconferenza che ha portato la comunità internazionale a sottoscrivere per il Libano aiuti del valore di oltre 250 milioni di euro. Sono i giovani che galvanizzati dalla visita del presidente francese e sull’onda di una collera che dura dal 2019 hanno assaltato i palazzi del potere dove il Gran Serraglio in queste ore concitate sta decidendo, dopo le dimissioni, la sorte non solo del governo possibile – arrivano addirittura voci di un incredibile incarico ad Hariri – ma del futuro prossimo del Libano, elezioni comprese.

Elezioni che comunque se si svolgessero con l’attuale legge elettorale, basata sulla composizione confessionale uscita dagli accordi di Taif del 1989, ( parzialmente riformata) difficilmente darebbero risultati così diversi dai precedenti. A Taif fu modificato l’articolo 24 della Costituzione per istituire la parità parlamentare tra cristiani e musulmani e fissare in 128 il numero dei deputati. Ma anche questa intesa mostra crepe evidenti, ha cristallizzato il potere non solo con divisioni settarie ma tra clan e famiglie che in buona parte dipendono da sponsor esterni.

Il problema è che il Libano, con 18 comunità religiose tra cristiani e musulmani, vive uno straordinario e formidabile equivoco: chi sono e quanti sono i libanesi? Nessuno lo sa. Cento anni fa, proprio a Sanremo, la Società delle Nazioni affidò la Grande Siria, comprese le cinque province che oggi costituiscono il Libano, al controllo della Francia. All’indipendenza si arrivò nel 1943 quando la Francia era occupata dalla Germania nazista con una spartizione del potere basata sul censimento del 1933, l’ultimo in assoluto che si è mai svolto in Libano. Da allora i libanesi non si sono mai più contati.

Nel 1948 arrivarono i palestinesi, dopo la Nakba, la catastrofe della sconfitta con Israele, che oggi sono 450mila: la guerra civile del 1975-1990 inizia proprio quando il 12 aprile 1975 i falangisti cristiani attaccarono, per rappresaglia, un autobus palestinese facendo 27 morti. Poi è venuta la guerra del 2006 tra Hezbollah e Israele e dopo il conflitto civile siriano il Libano è stato inondato da oltre un milione di profughi. Chiedersi chi è libanese oggi e quanti sono i libanesi non è un esercizio retorico ma sostanziale. Se vi vuole dare a uno Stato la possibilità di sopravvivere e di ricostruirlo bisogna almeno sapere per chi: o forse ci si vuole continuare a illudere che possono reggere accordi di 30 anni fa dopo quanto è intervenuto a stravolgere il Medio Oriente?

Ma è questa la finzione che fa comodo anche agli attuali sponsor – i «donatori» – della ricostruzione del Libano: quella di uno Stato virtuale e per lo più assente dove mettere ai posti di comando gli uomini a loro graditi.

Vale per l’Iran che sostiene il partito sciita Hezbollah, per i sauditi, i loro grandi rivali, che manovrano come pupazzi le famiglie sunnite, per i cristiani che si atteggiano a portabandiera della «civiltà» appoggiandosi alla Francia o agli Stati Uniti, ma non disdegnando intese con sunniti ed Hezbollah. Mentre Israele, che pattuglia il Libano dall’alto e bombarda in Siria, ha gioco facile a tenere il Paese sotto scacco con l’obiettivo ultimo di eliminare Hezbollah.

Gli israeliani hanno davanti la loro grande opportunità per dimostrare, sulle rovine di Beirut, che il vero nemico del Libano non sono loro, che lo hanno occupato e distrutto, ma gli Hezbollah, il paravento di ogni colpa. Quando persino i media delle fazioni opposte al movimento sciita riconoscono che i fallimenti del Paese non sono certo dovuti solo a Hezbollah ma alla compartecipazione di tutte le fazioni del Paese dei Cedri.

Quindi dimentichiamoci alla svelta di Sabra e Chatila, del massacro nel 1982 di palestinesi e sciiti libanesi compiuto dai falangisti cristiani con l’appoggio dell’esercito israeliano, e passiamo oltre: è il momento di costruire o ricostruire con i soldi della comunità internazionale, dei sauditi, degli Emirati un nuovo Stato fantoccio dove far trascorrere le vacanze sulla Corniche ai ricchi arabi del Golfo. Cosa del resto già accaduta. A meno che i libanesi stessi, quelli nelle piazze, abbiamo idee contrarie, migliori e vincenti.