«Sono qui da tre giorni, davanti all’ambasciata assieme ad altre donne. La famiglia dove lavoravo mi ha cacciata via, all’improvviso, dicendo che non aveva soldi per pagarmi. In un attimo mi sono ritrovata in strada. Voglio tornare a casa ma costa troppo, non ho soldi per farlo». La testimonianza di Luna, etiope di 32 anni, è una delle tante rilasciate ai media locali e internazionali dalle dozzine di lavoratrici migranti africane e asiatiche per denunciare la gravità della situazione in cui si sono ritrovate da un giorno all’altro. La crisi economica e politica libanese, aggravata dalle conseguenze della pandemia di coronavirus, ha fatto molte vittime. Tra queste ci sono migliaia di lavoratori migranti che già prima del Covid-19 godevano di scarse tutele. Tra loro le donne sono le più esposte all’abbandono e alla povertà estrema.

«La ragione principale dello stato in cui si ritrovano queste lavoratrici straniere è il crollo della valuta libanese, passata da 1500 lire per un dollaro a 4000 – spiega al manifesto, Abby Sewell, giornalista residente da anni in Libano e impegnata a far conoscere attraverso i suoi reportage la condizione di queste donne abbandonate al loro destino – In Libano anche il lavoro a basso costo fornito da migranti provenienti dall’Etiopia e da altri paesi africani e asiatici non è più sostenibile per tante famiglie della classe media. Ciò che era considerato uno stipendio basso, mediamente 200 dollari, per una domestica oggi è una somma molto elevata». I dollari ormai sono introvabili e, aggiunge Sewell, «i datori di lavoro pagano gli stipendi in lire libanesi. E se prima 200 dollari corrispondevano a 300mila lire, oggi superano abbondantemente le 600mila lire. La colf è diventata un lusso».

Le difficoltà economiche e il carovita hanno generato pratiche disumane, che violano i diritti basilari della persona e del lavoratore. Le famiglie risolvono il “problema” scaricando le collaboratrici domestiche davanti alle loro ambasciate. E dopo averlo fatto, ripartono a tutto gas come se avessero gettato via una vecchia lavatrice in una discarica abusiva. Particolarmente penosa è la condizione delle domestiche etiopi. Una scena abituale davanti all’ambasciata di Addis Abeba a Beirut, ci riferisce Abby Sewell, è quella  «del taxi che si ferma, le donne presenti lo circondano per aiutare l’ennesima loro compagna, in lacrime, cacciata via dalla famiglia dove lavorava. L’autista scarica frettolosamente dal bagagliaio una valigia, risale in auto e parte senza voltarsi indietro». Varie ong libanesi e persone comuni fanno il possibile per aiutare le lavoratrici abbandonate, con cibo, abiti e materassi. La Caritas qualche giorno fa ne ha accolto 35 in una sua struttura, ma non basta.

Le autorità etiopi appaiono insensibili al problema. Iman Khazaal, del ministero del lavoro libanese, ha spiegato alla tv Al Arabiya che l’ostacolo più grande al rimpatrio in Etiopia è la condizione posta ai lavoratori cacciati via di acquistare il biglietto aereo – quasi 700 euro – e di pagare al loro rientro in patria la permanenza di due settimane, per la quarantena dovuta al coronavirus, in hotel con tariffe che variano da 40 a 100 dollari a notte. Le ong per i diritti umani aggiungono non poche famiglie non restituiscono il passaporto alle lavoratrici quando le abbandonano. Così le ricattano, per tutelarsi da denunce relative a stipendi non versati, e lo consegnano alle ambasciate solo quando sono sicure che le loro ex collaboratrici domestiche lasceranno il paese nel giro di poche ore.

Tuttavia le stesse le autorità libanesi sono protagoniste di abusi e violazioni, poiché non hanno mai messo fine al sistema di sponsorizzazione “kafala” – ampiamente diffuso nei paesi arabi mediorientali più ricchi – che lega la presenza del migrante a un datore di lavoro specifico (kafeel), che controlla totalmente la loro vita, dal rinnovo della residenza al permesso di lavoro. In Libano, secondo fonti locali, sono almeno 200mila i migranti soggetti alla “kafala” e oltre il 70% è composto da donne impiegate come badanti, colf  e baby sitter. Una domestica non può trovarsi da sola una nuova famiglia ma deve ottenere l’autorizzazione del primo datore di lavoro. Ed è perennemente ricattabile: se si licenzia o viene licenziata non può far altro che rientrare in patria. In queste condizioni anche le violenze fisiche e gli stupri sono frequenti, come più parti hanno documentato in questi anni.

L’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro, ha ripetutamente chiesto a Beirut di abrogare la “kafala” ma sino ad oggi non è cambiato nulla. Il ministero del lavoro libanese non è disposto ad andare oltre una modifica parziale del sistema di sponsorizzazione per evitare presenze di lavoratori stranieri “irregolari” nel paese.