Se una parola suona azione, intervento, necessità di operare fattivamente e costantemente questa è la parola pace che indica lo strumento attivo d’ogni efficace affermazione, la risolutezza pratica, la capacità positiva che instaura e stabilisce, la energia determinata che riconosce, che accoglie e regola.

E invece (paradosso?) è piuttosto con la parola guerra che abitualmente si designano e si indicano le virtù operative, tattiche e strategiche, quell’intelligenza capace, si dice, di coordinare azioni in grado di incidere e di sistemare convenientemente e dunque – come pure ci dicono – di fare giustizia, di mettere ordine.

La guerra è mezzo, è strumento. La pace è fine è valore. Dicono anche: la pace è il portato della guerra. Allora, raccomandano, proprio chi ama la pace deve fare la guerra. E aggiungono: nessuno vorrà negare una verità tanto palmare.

Si tratta di un dato di fatto che si registra in ogni epoca della storia, presso ogni società, squadernato sotto i nostri occhi. Un dato questo che chiede solo d’essere constatato. Chi lo nega, chi si ostina a non prenderne atto non vuol vedere e, semplicemente, scambia un suo pio desiderio per la realtà.

Non è forse evidente che le aspirazioni più nobili, chi le voglia affermare davvero e non si perda a inseguire chimere, affinché la giustizia, la libertà e la pace crescano reali ed effettive, vanno esse emancipate e come sciolte dalle condizioni concrete ed effettuali entro le quali sono costrette e incapsulate? E, una volta liberate, non vanno poi forse difese, la giustizia, la libertà e la pace, salvaguardate da chi le avversa e contrasta e in armi le combatte? Dunque è predisponendo adeguati ed opportuni strumenti di guerra che, una volta instaurata, ogni nobile istanza intesa ad affermare la dignità dell’uomo, si preserva e prende vita.

È questa, ci dicono, una semplice, inoppugnabile constatazione non un’opinione, ma, per l’appunto, un dato di fatto. Dunque la guerra, condizione che va riconosciuta per ‘umana’ e, in quanto tale, inevitabile e permanente.

La ‘dimensione umana’ propria della guerra, scelgo siano le parole di Vincenzo Rabito a descriverla. Parole vere, vergate nella loro dignità dialettale da un bracciante siciliano di Chiaramonte Gulfi nel ragusano, classe 1899, soldato semplice del 69° Reggimento Fanteria, 2° Reparto Zappatori.

Ha diciannove anni Rabito quel 15 giugno del 1918 che, racconta, «Li soldate cascavono per terra, senza che nessuno avemmo tempo di vedire se era vivo o morto, opure ferito. Perché d’ongnuno dovemmo penzare per noie. Morte per terra ci n’erino tante che, con lo spavento che avemmo, non zapiammo dove mettere li piede e magare cascammo per terra, e certe volte magare mitemmo li piede sopra li morte e sopra li ferite. Così, tutte non si ha penzato altro – quelli che erimo vive-: ‘Questa volta, si muore’, perché non c’era altro scampo che la morte».
(Vincenzo Rabito, Terra matta, a cura di Evelina Santangelo e Luca Ricci, Torino, Einaudi, 2007, pp. 76-77).

Pure continuano a ripeterci: se vuoi il bene non cessare di approntare e realizzare il male, fedeli all’antico adagio: si vis pacem para bellum. È proprio perché vuole la pace che l’Italia, ci dicono, senza che un attacco esterno minacci la sua integrità territoriale, è da alcuni decenni in guerra su molteplici fronti. L’Italia, presente in armi e attiva in conflitti di vasta portata, tali comunque, per complessità di natura non solo economica, ma culturale, politica e religiosa, l’Italia dico, deve, al contrario, far piuttosto tesoro e perseguire un suo ruolo pacifico, coerente con il dettato costituzionale che sancisce la repulsa della guerra come mezzo inadatto a risolvere controversie internazionali.

Ogni intervento che richiami alla esigenza della pace, che inviti ad una riflessione e solleciti studi e iniziative adeguate non può, allora, contestualmente non affrontare la questione dei contingenti militari italiani attualmente impegnati in operazioni di guerra. Chi non vuole la guerra, infatti, deve preparare la pace.