Che sia riuscito o no, che abbia costretto alla chiusura solo una minima parte dei suoi 240 negozi, lo sciopero dei lavoratori dell’outlet di Serravalle nei giorni di Pasqua ha messo in evidenza la contrapposizione fra l’homo lavorante e l’homo acquirente, detto anche consumatore. Categoria corteggiata e ambita da qualunque marchio e azienda, il termine consumatore viene affibbiato a qualunque essere umano acquisti qualcosa. Comprare sempre di più, qualunque oggetto, che serva o no, che renda felici o meno è il comandamento su cui si regge il capitalismo. Comprare di giorno, di notte, nei giorni feriali e festivi, tutto va bene, purché si compri. Che cosa ce ne faremo di tutti questi oggetti una volta tornati a casa poco importa, perché quello che conta è far entrare la gente in un negozio e farla uscire con un pacchetto in mano. Siccome per vendere serve gente che esponga, proponga e porga, in molti casi il consumatore si deve sdoppiare e diventare venditore di merce propria o altrui, diventando così ingranaggio indispensabile di un meccanismo perverso che lo tiranneggia da una parte e dall’altra, perché dal volume delle vendite dipende il suo posto di lavoro, e quindi la condizione di potenziale acquirente.

Quando, nel 2001, gli argentini andarono in bancarotta e si trovarono con le tasche vuote di soldi, recuperarono l’antica pratica del baratto. Se a un salumiere serviva un meccanico, lo pagava in fettine di carne, se al meccanico serviva un dentista, si sdebitava con una riparazione, e via dicendo. Non era facile e nemmeno comodo, perché costringeva la gente a trovare qualcuno a cui servissero le proprie abilità o mansioni, però accrebbe la creatività, l’arte della condivisione e il senso dello stretto necessario.
Nel cosiddetto mondo benestante, da quando lo stimolo alla compera di beni superflui è diventato endemico e i salari medi hanno visto crollare il potere di acquisto, si è espansa la moda degli outlet che promettono di vendere a poco quello che fuori di lì costerebbe il doppio, dando così la sensazione all’essere comprante di fare un sacco di affari. Siccome questi grandi mercati della corsa all’oggetto sono aperti anche nei giorni festivi, l’homo consumante ha finito con il considerare la visita all’outlet un’attività di svago, cosicché la domenica, invece di andare al cinema, fare una gita, visitare una mostra o leggere un libro, si mette in coda per andare all’outlet a comprare qualcosa. Mi viene in mente quel padre che, vedendo la figlia neoassunta e quindi con stipendio a disposizione, andare ogni fine settimana a saccheggiare negozi, le disse: «Ma che bisogno c’è di fare shopping ogni sabato?». Si sentì rispondere: «E quando ci vado se gli altri giorni lavoro?».

Il senso della domanda era diverso e la risposta lo spiazzò non poco. Capì che il mondo era cambiato e che il capitalismo, con tutte le sue sollecitazioni, era diventato più feroce ancora. Ma la cosa che lo sorprese di più fu constatare che l’acquisto non era più un atto per ottenere qualcosa che serve, ma un’attività ludica in sé, qualcosa che riempiva la vita al posto di un’altra.
Chi ha criticato gli scioperanti dell’outlet dicendo che, invece di protestare perché costretti a lavorare nel giorno di Pasqua, dovrebbero baciarsi i gomiti perché hanno un lavoro, dovrebbe farsi un paio di domande, queste. L’acquisto in un giorno di festa mi rende davvero più felice e appagato? Quando la sera torno a casa e apro i pacchetti, la mia vita e il mio immaginario si sono davvero arricchiti? Vorrei proprio sapere quanti, in coscienza, si sentirebbero di rispondere Sì.

mariangela.mianiti@gmail.com