Tra i protagonisti della fotografia del paesaggio al pari di Ghirri, Basilico, Jodice o Radino, Guido Guidi (Cesena, 1941) dimostra quanto sia sempre difficile assimilare dentro un genere personalità e poetiche così differenti tra loro. La sua ultima pubblicazione – sulla Milano degli anni novanta – dal titolo Cinque viaggi 1990-1998, edita con inappuntabile cura da Mack (pp. 152, € 55,00), insieme alla mostra curata da Corrado Benigni per la Fondazione MIA, aperta ancora per pochi giorni al Monastero di Astino (Bergamo), ci offrono l’occasione per alcune riflessioni sul fotografo romagnolo: a iniziare proprio dal riconoscere le differenze del suo lavoro rispetto a quello di altri importanti autori della fotografia contemporanea.
È almeno dalla mostra collettiva Viaggio in Italia (Bari, 1984), che definì la tendenza a ritrarre città e architetture, ambienti naturali e monumenti secondo fotogenie del tutto inedite, che la foto di paesaggio è stata impiegata a supporto del progetto urbanistico dimostrandosi un efficace strumento di analisi. In questa direzione il contributo di Guidi è stato rilevante con la costituzione a Rubiera nel 1989, con Paolo Costantini e William Guerrieri, dell’associazione «Linea di Confine per la Fotografia Contemporanea». Fu, tuttavia, lo stesso fotografo romagnolo, in un’intervista rilasciata nel 2013, a dichiarare di avere avuto sempre «qualche remora» a usare la parola «paesaggio» per identificare il soggetto delle sue immagini.
Raccontò che quando negli anni ottanta, intento a fotografare nei dintorni di Cesena, incontrò un pittore, questi gli disse: «Voi fotografi potete ancora rappresentare il paesaggio, noi pittori non lo possiamo più fare!». Come spiegò ad Antonello Frongia e Laura Moro (gli intervistatori), era «disdicevole in quegli anni dipingere il paesaggio, considerato dopo le avanguardie un soggetto da pittori della domenica, un genere da salotto». Dal canto suo Guidi osservava che in realtà il significato era solo «corroso dall’uso», come in poesia per Fortini era accaduto con la parola «pane».
Questa prima nota di cronaca chiarisce, forse, quanto sia distante il suo interesse da un lato per qualsiasi resa iconica dell’immagine fotografica, dall’altro quanto i luoghi siano per lui un pretesto: come si può appurare con la selezione degli scatti in questione. Milano, ancora prima di trasformarsi in fiera-delle-meraviglie architettoniche, è stata un’opportunità per sostenere sempre gli stessi convincimenti, i quali si riassumono in ciò che già disse il famoso fotografo statunitense John Szarkowski: «fotografare non è vedere, fotografare è fotografare».
I cinque itinerari milanesi selezionati sono i centri urbani dell’hinterland attraversati dal Naviglio della Martesana o quelli ancora più periferici situati lungo il corso dell’Adda, collegati tra loro da trafficate strade statali e da vie d’acqua ormai vuote dei battelli, località, però, già apparecchiate per confondersi nello sprawl urbano che meglio si configurerà negli anni a venire con la famelica aggressione alla campagna.
Cadrebbe in errore chi volesse qualificare come «sociale» lo sguardo rivolto da Guidi alla desolazione degli spazi avanzati tra i plinti di un viadotto o racchiusi dai volumi di un’edilizia rurale sopravvissuta al «miracolo economico», poiché in questi scatti non c’è né denuncia né la volontà di esprimere una qualche intenzionalità, ma solo il proposito di interrogare le relazioni tra l’oggetto e lo spazio che lo circonda. In questo lento procedere le sue immagini rappresentano l’atto personale e «autoeducativo» per «conoscere il mondo» ancor prima di «comunicarlo».
L’evidenza di lasciare traccia di questo suo processo indagatore della realtà si manifesta nell’uso della sequenza fotografica. In un tempo mobile accade che le ombre mutino, un passante compaia accidentalmente nell’inquadratura della macchina fissata sul cavalletto o che lo stesso soggetto sia ripreso da diverse angolazioni, a colori ma anche in bianco e nero. L’introduzione di queste «varianti» – per usare il titolo di un suo libro (Varianti, Art&, Tavagnacco, 1995) – denotano il carattere sperimentale del lavoro di Guidi, che si qualifica come anti-documentaristico proprio per l’apertura temporale a plurime letture dello stesso soggetto (e anche ai suoi accadimenti). Questi scatti si presentano singoli e isolati solo per ragioni di convenienza.
Gli otto anni trascorsi nel territorio milanese sono stati, quindi, i tempi lunghi necessari al fotografo per svolgere l’incarico pubblico commissionatogli dalla Provincia di Milano nell’ambito dei progetti «Archivio dello spazio» e «Milano senza confini». Si comporterà in modo analogo, negli stessi anni, sul Monte Grappa o nel duemila a San Vito di Altivole con la Tomba Brion di Carlo Scarpa.
Guidi considera la macchina fotografica «come uno strumento di raccolta», allo stesso modo di come si può «scandagliare il fondo marino o eseguire delle trivellazioni in una miniera». In questa operazione ciò che gli sta più a cuore è la sola «verità delle immagini». Perché sono le immagini che «a differenza del pensiero – come disse Wim Wenders – non impongono alcuna posizione alle cose»: l’atto del «vedere significa sempre immergersi nel mondo, pensare, invece è prenderne le distanze».
Guidi, che condivide con il regista tedesco questa condizione immersiva del vedere, va però oltre, ponendo l’attenzione sull’«esercizio per vedere», che consiste nel sondare in profondità i meccanismi dello sguardo. Almeno dalla fine degli anni sessanta, con apparecchi grande formato 20×25, egli pratica e invita a «disautomatizzare» la nostra percezione visiva, spiegando che c’è una «bellezza più difficile che sfugge» e che dura un attimo, appena il tempo per comprenderla perché «subito dopo l’hai già vista». L’otturatore ha la facoltà di catturarla, e nell’abilità di azionarlo si conserva la magia della grande fotografia.