Lezioni cinema a Pesaro, un’utopia espansa
Festival Nell’edizione della Mostra del cinema di Pesaro di quest’anno, il programma delle lezioni di Storia di Federico Rossin ha permesso un vero e proprio tuffo negli anni ’60 e ’70 più selvaggi del cinema sperimentale
Festival Nell’edizione della Mostra del cinema di Pesaro di quest’anno, il programma delle lezioni di Storia di Federico Rossin ha permesso un vero e proprio tuffo negli anni ’60 e ’70 più selvaggi del cinema sperimentale
Nell’edizione della Mostra del cinema di Pesaro di quest’anno, il programma delle lezioni di Storia di Federico Rossin ha permesso un vero e proprio tuffo negli anni ’60 e ’70 più selvaggi del cinema sperimentale mondiale con una serie di proiezioni di grandi capolavori concepiti per essere proiettati su più schermi.
Distribuiti in tre giorni, i film programmati sono stati i seguenti: Surface Tension di William Raban (1974-76), Choke di David Crosswaite (1971), Mechanical Ballet di David Parsons (1975), Black TV di Aldo Tambellini (1964-68), Berlin Horse di Malcom Le Grice (1970) nel programma 1; A Dam Rib Bed di Stan VanDerBeek (1964-65, proiettato in 16mm), Razor Blades di Paul Sharits (1965-68, proiettato in 16mm), For the Damaged Right Eye di Toshio Matsumoto (1968) nel programma 2; Christmas on Earth di Barbara Rubin (1963-1965, proiettato in 16mm) e Palace of Pleasure di John Hofsess (1967) nel programma 3.
Il programma 1 esemplifica un approccio analitico al multischermo, cioè un approccio in cui la giustapposizione di due schermi invita lo spettatore all’esplorazione di ciò che si vede nel dettaglio, insistendo molto sulla variazione compositiva nell’inquadratura. In questa selezione, eccetto il caso dell’italo-americano Tambellini, i film scelti sono opere di autori della London Film-Makers’ Co-operative. Fra questi lavori, vale la pena ricordare quello folgorante di Parsons, che in sostanza è una rielaborazione di una bobina contenente immagini di collaudi automobilistici, urti che diventano sinistri e comici, per citare lo stesso filmmaker (citato nel catalogo della Mostra). Ma anche Berlin Horse, film capace di sfoggiare una componente lirico-estatica sublime, il cui eco si ritrova solo in parte in altre tradizioni di cinema – per esempio, in certi film degli anni ‘70 di Werner Herzog.
Con il programma 2 il multischermo si fa sinonimo del rapporto tra immagini cinematografiche e vita psichica. La possibilità dell’analisi di ciò che si vede di certo non scompare ma sembra passare in secondo piano rispetto a una idea di cinema come cattura della percezione nel suo continuo farsi e disfarsi. In questa tensione si ritrova, se si vuole, ciò che il multischermo ha permesso e può continuare a permettere, cioè la rottura della prospettiva rinascimentale, «a cui la nostra cultura occidentale ha ridotto le potenzialità fisiologiche della nostra visione», per citare le parole di Federico Rossin durante la presentazione di questo programma.
Dei film proiettati quello di VanDerBeek è senza dubbio il più giocoso e leggero, una sorta di murale cinematografico, demolito dal passaggio di Razor Blades di Sharits – un’esperienza vederlo proiettato in 16mm e a tutto volume –, i cui impulsi distruttivi li possiamo in qualche modo immaginare sullo sfondo dei tre schermi del film di Matsumoto. In For the Damaged Right Eye, l’immagine documentaria viene infatti fatta esplodere «attraverso il ritmo e il montaggio», per citare ancora Rossin.
Infine, il programma 3 collega l’uso del multischermo al corpo e al sesso. La proiezione in prima italiana di Christmas on Earth – film concepito come performance – ha offerto l’occasione di assistere a una rappresentazione estrema dell’atto sessuale. Il film di Rubin è un campionario di accoppiamenti vari: etero, omosessuali, e anche con la presenza di animali. La resa di tutto questo è data da una doppia proiezione in cui gli schermi si sovrappongono, uno nell’altro, come a mimare l’azione stessa della penetrazione. Rubin fece dipingere di nero i corpi dei suoi performer, tranne nelle parti erotizzate, dipinte invece di vernice fluo, parti bianche che si colorano in proiezione con il passaggio di filtri davanti al fascio delle luci da parte di chi proietta. Questa connotazione ritualistica si staglia contro riprese in cui un’illuminazione diretta della scena toglie invece ogni sfumatura di suggestione erotica agli atti sessuali in mostra.
Con Palace of Pleasure si torna invece alla giustapposizione dei due schermi. Prima italiana anche in questo caso, il film di Hofsess è meno d’impatto rispetto al film di Rubin, ma nel suo mescolare erotismo, ritualità, astrazione visiva e altri elementi tocca spesso picchi espressivi sorprendenti. Si tratta di un film importante nell’ambito del cinema underground canadese, e che merita di essere ricordato anche come documento della cultura canadese in senso lato, visto la presenza di un giovane David Cronenberg fra gli attori e per l’uso delle poesie di Leonard Cohen.
Dedicate alla memoria di Adriano Aprà, le lezioni di Storia di quest’anno di Rossin ci ricordano come l’atto del vedere, nel cinema espanso, sia un atto profondamente utopico, capace cioè di dislocare la visione al di là della rappresentazione contingente di ciò che ci troviamo davanti, per diventare raccordo tra continuità visive e suggestioni effimere.
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