Non c’è che dire, l’antipasto è stato preparato per bene. Per dare il via al grande banchetto universale sono stati apparecchiati 42 tavoli tematici, a mettere le gambe sotto i tavoli circa 500 «esperti» provenienti da tutto il mondo. Ognuno chiamato a dire la sua al convegno «Expo delle Idee«, uno spot planetario girato all’Hangar Bicocca, nell’enorme spazio dedicato ai Sette Palazzi Celesti di Ansel Kieper, un vuoto pieno di materia e suggestioni che spiazza e impone rispettoso silenzio. Ieri, invece, di parole ne sono state dette tante. L’obiettivo è tutto da scrivere: si chiama Carta di Milano, sarà un patto che la città dell’Expo lascerà al mondo per pensare nuove politiche concrete per nutrire il mondo. Questa «eredità» verrà consegnata al segretario dell’Onu Ban Ki-Moon, poi toccherà alla delusione per le politiche disattese.

Gli ospiti per tutta la giornata hanno preso la parola per magnificare l’evento rilanciati su grande schermo, alcuni dal vivo, altri in spirito, come Papa Bergoglio e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella (gli unici ad avere alzato la testa dal piatto, quasi sovversivi rispetto al menù della giornata). A prendersi gli ultimi applausi, con una manciata di ministri al seguito, anche il presidente del consiglio Matteo Renzi, il rappresentante di un governo che ancora deve mantenere gli impegni presi (in milioni di euro) con gli enti locali. Altra promessa mancata. Ma ieri non era giornata per sottolineare le contraddizioni dell’Expo, e quei milioni – e il malaffare e le speculazioni sull’area Rho Pero – sono briciole rispetto alle gigantesche contraddizioni che segnano l’evento dedicato al cibo in un mondo dove ogni giorno si muore di fame, e di obesità. Era giornata di grande ottimismo.

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A metà mattinata, il chiacchiericcio da convegno si spegne con l’intervento in video del Papa. «Occorre un orientamento deciso nel risolvere le cause strutturali della povertà», dice il pontefice. Sta con gli sfruttati, ha le idee chiare: «E’ dunque necessario, se vogliamo realmente risolvere i problemi e non perderci nei sofismi, risolvere la radice di tutti i mali che è l’inequità». C’è una «scelta prioritaria», suggerisce: «Rinunciare all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria». E qui, sul concetto di eguaglianza versus mercato, gli astanti potrebbero togliere il disturbo con la coda tra le gambe. Anche il presidente della Repubblica, video trasmesso, mette il dito nella piaga: «L’aumento delle diseguaglianze tra paesi ricchi e popolazioni povere in costante lotta per sopravvivere alla denutrizione rende indispensabile l’adozione di un nuovo modello di sviluppo che modifichi questa inaccettabile tendenza». Altri applausi, altre parole accolte come una benedizione. Per tutti, per chi l’evento l’ha costruito, per chi l’ha subito, e per le multinazionali che hanno investito (dice il Papa «questa economia uccide»).

Matteo Renzi interviene all’ora del tè. Prima fa lo spiritoso, perché in video l’ex presidente del Brasile Lula lo chiama «compagno», poi si ascolta da solo inventandosi parole chiave in salsa patriottarda, per dire che l’Italia ce la farà, che l’Expo è una grande occasione, che il 2015 è un «anno felix». Dalla parola «scandalo», dice, siamo passati alla parola «identità«. Non vuol dire molto, ma all’occorrenza si potrebbe convenire su «l’identità è il senso profondo di quello che l’Italia è». Tipo «prodotti italian sounding» (che suonano italiano). Poi diventa anche minaccioso, con quei lavoratori del Teatro alla Scala che non vogliono lavorare il primo maggio, giorno di inaugurazione dell’Expo: «Siamo pronti a tutto per evitare una figuraccia internazionale». Non è un attacco alla Cgil (anche il sindacato vuole il concerto del primo maggio), è una gradassata contro «qualche minoranza che pensa di poter bloccare quell’evento non in nome del sacrosanto diritto di sciopero ma per l’inaccettabile diritto al boicottaggio». Ma gli passa subito, è il giorno dell’ottimismo, la sua certezza è che con l’Expo ci sia la «possibilità che il nostro paese diventi portatore sano di speranza ed entusiasmo». Fine.

Il «sounding» è questo. L’autocelebrazione dei tanti soggetti che partecipano al banchetto lascia poco spazio a riflessioni non in linea con le aspettative messianiche generate dalla propaganda. Ci prova un po’ la Cgil Lombardia, con imbarazzo: «Spiace notare che nell’insieme dei temi trattati non compaia mai quello della qualità del lavoro e del lavoro ad un lavoro dignitoso» (ma spiace anche che la Cgil abbia firmato un protocollo che prevede l’utilizzo di lavoratori volontari). L’evento che tutto fagocita, pensiero critico compreso, accoglie anche le parole di Carlo Petrini, il padre fondatore di Slow Food. «Il nervo scoperto che oggi sta mettendo in ginocchio milioni di contadini ha un nome chiaro: si chiama libero mercato, che applicato al cibo sta generando uno sconquasso di proporzioni bibliche».

Qualcuno dissente all’Hangar Bicocca? Nessuno. Ma anche Petrini nutre delle aspettative: «Vorrei un’Expo più sobria, meno attenta ai grandi padiglioni, alla grande kermesse, ma che abbia anche il coraggio di dire le cose come stanno, che si apra ai contadini, che accolga a braccia aperte anche gli umili e i poveri».

Sono parole in sintonia con un altro convegno che si è tenuto sempre ieri a Milano, a Palazzo Marino «Nutrire il pianeta, o nutrire le multinazionali?», questo il titolo. La concomitanza degli eventi non ha aiutato gli «Expo scettici». Vittorio Agnoletto, tra gli organizzatori, spiega il senso dell’iniziativa: «O si mette al centro il cibo e l’acqua come beni comuni o il portafogli delle multinazionali. Contestiamo il fatto che Expo abbia come partner grandi multinazionali, come Nestlé o Coca Cola, solo per citarne alcune, che sono parte del problema e non parte della soluzione». E’ una delle questioni, ma il fatto incontestabile è che questo sistema alimentare non funziona più e produce squilibri e ingiustizia sociale. Di questo pensiero critico dovrebbe nutrirsi chi intende ragionare per battersi «contro l’Expo», sapendo che da maggio in poi sarà inutile sbatterci la testa.