Il tentativo che la storica Eloisa Betti compie nel suo ultimo libro è tanto ambizioso quanto ben riuscito: ripercorrere la vicenda dell’Italia repubblicana dal punto di vista della storia del lavoro precario (Precari e precarie: una storia dell’Italia repubblicana, Carocci, pp. 268, euro 24). L’argomento presenta molti elementi di complessità, soprattutto sul piano della definizione e della quantificazione del fenomeno: che cosa vuol dire «lavoro precario» in un’economia capitalistica? Come misurarlo? Un primo criterio di definizione del precariato sembrerebbe derivare dalla natura del contratto di lavoro (ora a tempo determinato, ora a chiamata, ora «atipico», nelle sue molteplici forme); senonché anche un lavoratore «stabile», con un contratto di lavoro a tempo indeterminato, può soggettivamente sentirsi «precario», per esempio in previsione di un’imminente crisi industriale o in condizioni di elevata incertezza sul futuro occupazionale. A questo proposito i dati dell’Inps e dei Centri per l’impiego ci dicono che oggigiorno il 30-40% dei contratti di lavoro cosiddetti «stabili», specialmente nelle piccole imprese, non dura più di un anno. Vale a dire che in assenza di specifiche protezioni, nel sistema di produzione capitalistico il lavoro è strutturalmente esposto al rischio della precarietà e della disoccupazione.

BEN CONSAPEVOLE dei problemi interpretativi che l’argomento presenta, Eloisa Betti nel suo volume segue la via di storicizzare i concetti di lavoro «precario» e «stabile» con riferimento alla realtà socio-economica italiana dal dopoguerra a oggi, con una forte attenzione alla questione di genere, alla dimensione normativa, ai dibattiti politico-parlamentari in materia e alle lotte dei precari che hanno costellato la storia della Repubblica. Il primo ventennio dell’Italia repubblicana è stato caratterizzato da una diffusa precarietà del lavoro, a dispetto dell’avanzato programma di politica sociale ed economica tracciato dalla Costituzione. In una certa misura il rapido e impetuoso processo di sviluppo economico collocato fra gli anni Cinquanta e Sessanta fu possibile proprio in virtù dei sacrifici di milioni di lavoratori, in molti casi esposti all’irregolarità del lavoro. Fu nel contesto del boom economico che cominciò la costruzione di un quadro normativo che garantisse maggiore stabilità e protezione per i lavoratori, grazie ai propositi di riforma e programmazione dell’economia dei governi di centro-sinistra, sollecitati dall’incalzare delle lotte politico-sindacali. La «scoperta» della precarietà come condizione diffusa, a partire dai pionieristici studi di Paolo Sylos Labini, avvenne in coincidenza con l’elaborazione di un nuovo diritto del lavoro imperniato sulla tutela del lavoratore salariato; dalla legge del 1966, che escludeva la pratica del licenziamento ad nutum, cioè senza motivazione e con il solo vincolo del preavviso, si giunse presto allo Statuto dei diritti dei lavoratori del 1970, uno dei punti apicali delle riforme dell’epoca. Il lavoro precario, tuttavia, mai scomparso neanche in quegli anni, trovò nuovo alimento negli anni Settanta sia dalle trasformazioni economiche seguite alle ristrutturazioni produttive e agli shock internazionali di inizio decennio, sia dall’avvio, a partire dalla fine degli anni Settanta, di una «restaurazione capitalistica».

QUEST’ULTIMA si sarebbe compiuta negli Ottanta e soprattutto nel decennio successivo, quando le politiche economiche e la legislazione del lavoro nate nell’epoca della grande conflittualità operaia vennero gradualmente accantonate, introducendo, in nome dell’efficienza e del profitto d’impresa, il mito positivo della flessibilità del lavoro. Il percorso storico ben ricostruito da Eloisa Betti ci mette di fronte a un dato di fatto: in assenza di un’azione politica volta a modificare gli assetti produttivi propri del capitalismo, la condizione della precarietà è destinata a riemergere quale condizione normale del lavoro salariato.