Pantaloni arrotolati al polpaccio e un ombrello nella mano sinistra. E’ uno degli scatti più chiacchierati del nuovo presidente cinese Xi Jinping, immortalato sotto la pioggia durante una visita ufficiale nello Hubei, luogo natale di Mao Zedong. Uno di quelli che meglio ostenta il lato “pop” del numero uno di Pechino, già etichettato dai media statali come “l’uomo del popolo” a nemmeno un anno dalla sua nomina a Segretario generale del Partito.

E’ dalla fine del ricambio al vertice dello scorso novembre che la grancassa cinese asseconda gli sforzi della nuova leadership votata a riannodare i rapporti con una popolazione sempre più insofferente verso i privilegi e la corruzione dei funzionari. Parola d’ordine: trasparenza.

Nel mese di dicembre l’agenzia di stampa statale Xinhua aveva regalato uno sguardo nelle vite private dei nuovi “signori di Pechino”, con tanto di foto inedite. Un evento abbastanza insolito in Cina, dove gli affari dei leader vengono normalmente trattati alla stregua di “segreti di Stato”. Sta di fatto, però, che la versione destinata ad un pubblico d’oltreconfine sia stata resa più ghiotta da alcuni particolari assenti nell’edizione in caratteri. A evidenziare come spesso la stampa cinese si dimostri una sorta di Giano bifronte nella trattazione delle notizie, con esiti differenti a seconda che queste siano destinate ad un’audience internazionale o domestica.
Sulla scia della Xinhua hanno fatto seguito una serie di iniziative controverse, dai blog “Imparare da Xi” e “Imparare da Li” (quest’ultimo dedicato al Premier Li Keqiang), in cui i leader due venivano immortalati in atteggiamenti particolarmente casual, ad un account su Instagram del presidente cinese.

Operazioni, parrebbe, avviate indipendentemente da comuni cittadini, ma perfettamente in linea con il riavvicinamento tra Partito e masse incoraggiato dall’alto.

Esperti della comunicazione – che in passato hanno prestato i propri servigi a Zhongnanhai, il Cremlino cinese – riferiscono che oltre la Muraglia non esiste un team di esperti paragonabile all’Ufficio di comunicazione della Casa Bianca. Ragione per la quale la spinta verso un’immagine dei leader più “umana” e vicina al popolo, promossa dalla nuova dirigenza al potere, quasi certamente deve essere stata orchestrata collegialmente da Xi Jinping e dagli altri sei membri del Comitato permanete del Politburo, la stanza dei bottoni di Pechino.

Nello specifico, le divisioni più coinvolte nella nuova campagna mediatica dovrebbero essere il Dipartimento di Propaganda, la Segreteria del Partito -che coordina il lavoro dei “magnifici sette”- e il Policy Research Office, principale think tank del Partito.

Una storia lunga oltre un trentennio racconta di come Pechino, nella sua ascesa tra i player globali, abbia spinto sul pedale delle relazioni pubbliche senza mai abbandonare del tutto la vecchia cara propaganda maoista. D’altra parte, come sostiene Colin Moore nel suo Propaganda Prints, marketing, pubblicità e relazioni pubbliche sono fioriti nel corso del XX traendo nutrimento dagli insegnamenti della propaganda politica e dalle sue “manifestazioni grafiche”.
A partire dalla morte di Mao, il Partito comunista cinese ha dato inizio ad un processo di restyling volto a ridipingere la propria immagine, dismettendo la divisa rivoluzionaria per vestire i panni del “partito di governo” (sistema monopartitico permettendo). Ha reagito agilmente alle disastrose politiche anni ’50-’60 intraprendendo con successo un processo di riadattamento e modernizzazione là dove altri regimi comunisti si sono scontrati contro irreparabili fallimenti.

Il segreto del suo successo risiede in una formula vincente nella quale l’apologetica di regime si miscela con una buona dose di vis persuasoria. Quella che comunemente viene chiamata propaganda, nel Regno di Mezzo, si è evoluta nell’arco di un trentennio da mera esaltazione del Partito a più accurata e sottile manipolazione degli organi d’informazione.

Sebbene il ruolo e i metodi della propaganda ufficiale siano mutati, il Ministero della Verità -come è stato ribattezzato dal web il Dipartimento Centrale di Propaganda- continua a rappresentare il cuore del sistema, effettuando un controllo a tappeto su ciò che può essere detto e quando può essere detto. Dapprincipio caratterizzato da forti influssi sovietici e goebbeliani, verso la metà degli anni ’80, ha cominciato a guardare con maggior interesse al modello americano delle relazioni pubbliche. In particolar modo, il collasso dell’Unione Sovietica (della quale la politica di Pechino è stato per lungo tempo debitrice) e le proteste di piazza Tian’anmen hanno spinto la leadership cinese a rimettere in discussione la propria strategia di perseguimento della longevità. La panacea per i mali del gigante asiatico, negli anni del trionfo del soft power a stelle e strisce, è sembrata per ovvie ragioni essere custodita sull’altra sponda del Pacifico.

Il tentativo di makeup del Dragone ha coinvolto anche la politica estera. Una ricerca dal titolo National Image Building and Chinese Foreign Policy, redatta nel 2003 da Hongying Wang, professore di scienze politiche presso l’Università di Waterloo, mostra come il Gigante asiatico abbia rimpiazzato l’immagine di “leader rivoluzionario” di cui si fregiava ai tempi del Grande Timoniere, con quella di “cooperatore internazionale e grande potenza” plasmata da Deng Xiaoping, padre della politica di riforme e apertura anni ’80.

Ciò nonostante, la “fabbrica del consenso” cinese sembra tutt’oggi attingere -più o meno consapevolmente- al repertorio simbolico della Rivoluzione Culturale, sedimentato nella memoria culturale dei cinesi sino ai nostri giorni. E’ quanto sostiene Barbara Mittler in A Continuous Revolution- Making Sense on Cultural Revolution Culture, opera nella quale, attraverso una serie di interviste condotte a inizio secolo tra cinesi di generazioni e classi sociali diverse, giunge alla conclusione che gli anni tra il 1967-1976 sono tutt’altro che caduti nell’oblio. Anzi, godono ancora di una certa popolarità persino tra i più giovani.

Versioni pop e rock di note canzoni rivoluzionarie, T-shirt, orologi e oggettistica varia con il faccione di Mao vendono piuttosto bene (non soltanto tra i turisti) anche se spesso, fa notare Mittler, la fruizione di tali prodotti rimane ad un livello estetico, risultando svuotata di un vero significato politico. Una specie di ricezione inconscia di messaggi visivi e valori di cui si conosce a malapena il vero significato. In alcuni casi, tra i più attempati, i simboli dell’epoca che fu – Grande Timoniere compreso- stanno invece a ricordare un passato di egualitarismo e altruismo, sepolto di recente con la vittoria del “capitalismo socialista”.

«Certamente permane un’eredità della propaganda maoista nella comunicazione e nella pubblicità della Cina di oggi, anche sul piano iconografico – ha spiegato a ManifestoAsia Laura De Giorgi, docente di storia della Cina pressa l’Università Ca’ Foscari di Venezia, nonché autrice di La via delle parole. Informazione e propaganda nella Cina contemporanea – La maggior parte dei cinesi, d’altronde, non percepisce il maoismo come un’eredità scomoda, ma considera ancora Mao come il padre della patria, e per certe generazioni vi è anche una forma di nostalgia».

Allo stesso tempo il venir meno della lotta di classe e il progressivo disinteresse alla politica delle nuove generazioni ha notevolmente indebolito la presa esercitata dalla tradizionale propaganda sulla popolazione cinese. In particolare agli inizi dell’apertura anni ’80, i valori sociali e le tecniche mediatiche sponsorizzati dal Partito hanno faticato a tenere il passo con la dirompente modernità in arrivo da Occidente. La rapida evoluzione delle tecniche grafiche pubblicitarie manda in pensione la massima rappresentazione artistica della propaganda maoista: i poster finiscono nei mercatini del (sedicente) antiquariato, e quando sopravvivono perdono la vecchia impronta politica.

«Nella nuova iconografia Mao diventa una specie star del cinema, mentre i leader Deng Xiaoping e Jiang Zemin (presidente dal 1993 al 2003, ndr) vengono ritratti come persone comuni» ha commentato a ManifestoAsia Stefan R. Landsberger, uno dei più noti esperti e collezionisti di poster cinesi. Soltanto il ritorno di Hong Kong alla madrepatria (1997) e la campagna lanciata contro la setta del Falun Gong (1999) riportano alla ribalta la tematica più strettamente politica. Proprio la guerra scatenata contro il movimento spirituale di Li Hongzhi ha indotto la dirigenza cinese a rispolverare tecniche da vera e propria Rivoluzione Culturale, con tanto di sessioni di studio forzato sul soldato modello Lei Feng.

Similmente l’epidemia di Sars del 2003 ha visto un rinnovato utilizzo dei poster e della terminologia maoista. E’ una “guerra del popolo” quella portata avanti da Pechino per debellare la malattia, e sui manifesti operatori sanitari col pugno serrato incitano i cittadini a non demordere.

Forme più o meno tradizionali di propaganda hanno trovato ancora una volta ampio spazio in occasione delle Olimpiadi del 2008, ospitate da Pechino nonostante all’estero la relazione complicata tra il Dragone e i diritti umani avesse fatto storcere il naso a molti. Fattore, quest’ultimo, che ha spinto il governo cinese a destinare milioni di dollari per una campagna pubblicitaria, rimbalzata sui media d’oltremare, volta a sedurre la comunità internazionali. In patria, di contro, il mezzo più vintage dei poster tornava alla ribalta ammiccando ad un pubblico esclusivamente domestico.

Uno studio condotto da Eric Drummond Smith, dottore in Scienze politiche ed esperto di propaganda presso l’Università della Virginia, individua tra il 1970 e il 1990 l’intervallo di tempo in cui il Partito Comunista cinese -sotto il pressing di nuove esigenze in politica estera- ha definitivamente cambiato pelle. The Evolution of Visual Symbolism & Iconography in Beijing Review analizza l’evoluzione dell’iconografia di Partito, così come è apparsa sul Beijing Review, rivista del Gigante asiatico in lingua inglese e per questo da sempre importante vetrina per il governo della Repubblica popolare nei suoi rapporti con il resto del mondo. Non a caso a dominare sono principalmente fotografie immortalanti politici cinesi durante incontri e missioni diplomatiche.

Ciò che emerge nella pubblicazione è una tendenza tutt’altro che lineare nella reazione a minacce entro i confini nazionali. Se a naso si potrebbe ipotizzare un ripiegamento verso l’interno in occasione di disordini, Smith dimostra che non è sempre stato così. Tra le maggiori eccezioni, l’aumento del numero di fotografie diplomatiche nel 1990, soltanto due anni dopo la strage di Tian’anmen, spiegabile -secondo Smith- con il lievitare delle visite ufficiali con i Paesi del terzo mondo, a controbilanciare il drammatico calo delle relazioni con le potenze dell’Europa occidentale e della sfera di influenza statunitense.

In questo momento storico l’iconografia cinese spinge per una rappresentazione del Dragone come leader benevolo dei Paesi Non Allineati, in uno sforzo volto a limitare le sanzioni e ottenere supporto dalla comunità internazionale.

Ed è sempre la politica estera a selezionare le tematiche della vignettistica, approdata su Beijing Review all’inizio del 1978 in concomitanza con una liberalizzazione della cultura e del’arte, per quanto quest’ultima fosse ancora strettamente al “servizio del popolo” (leggi: politica interna off-limits). Ritenuti intoccabili Stati Uniti e alleati, proprio mentre sotto Deng Xiaoping la nazione si apriva all’Occidente, la satira per immagini ha bersagliato dapprincipio Unione Sovietica, Vietnam e Cuba, abbassando il tiro soltanto dopo la stabilizzazione delle relazioni con il governo di Hanoi. Poi inaspettatamente ha virato verso le questioni interne, giusto alla vigilia degli eventi dell”89, a sottolineare la simpatia della rivista per le manifestazioni studentesche, di cui ha fornito ampia copertura.

In generale immagini e foto strettamente politicizzate hanno visto una drastica riduzione con l’emergere di un linguaggio simbolico più maturo. Persino i ritratti di Mao, subito dopo la sua dipartita, vissero un periodo di crisi in quanto inevitabilmente associati alla vedova Jiang Qing e alla sua cricca, veri artefici del culto del Grande Timoniere come collante sociale e fonte di legittimazione per il Partito. Allo stesso tempo, l’iconografia collegata all’Esercito popolare di liberazione, un topic della Rivoluzione Culturale, cadde temporaneamente in disuso per via della sua vicinanza alla figura di Lin Biao, capo dell’esercito e braccio destro di Mao, dichiarato traditore in seguito ad una morte sospetta. Salvo poi tornare alla ribalta negli anni ’80, quando i disordini di piazza Tian’anmen avviarono un nuovo periodo d’oro per le immagini militari.

E se simboli politici e forze armate sono soggetti a fluttuazioni dettate dagli intrighi di palazzo, industrializzazione e modernizzazione rappresentano un sempreverde nella Nuova Cina. Mutuato dal repertorio marxista-leninista-stalinista, il simbolismo industriale non solo ha resistito alle scosse anni ’80, registrando soltanto una debole flessione, ma è anzi cresciuto numericamente durante tutto il periodo delle riforme. La figura dello scienziato si unisce a quella più “comunista” dell’operaio, con il quale condivide sostanzialmente le stesse regole iconografiche, distinguendosi solo per la tipologia di arnesi imbracciati.

Esercito, politica, industria e agricoltura. Tra i quattro pilastri dell’iconografia “rossa”, la figura del contadino è quella che compare più di rado su Beijing Review. Il motivo è intuibile e dettato ancora una volta da esigenze di audience. Avendo l’obiettivo di presentare la Repubblica popolare al mondo, il periodico di Pechino seleziona gli elementi più utili a rafforzarne la legittimità sullo scacchiera globale. E in particolare durante gli anni delle riforme, una Cina a caccia di investimenti esteri aveva ben poco da guadagnare, a livello di prestigio, nel mostrare il proprio lato rurale.

Ha preferito, piuttosto, sfoggiare i muscoli dell’industria nazionale e mettere in bella mostra gli aspetti più esotici del Paese -a partire dalle minoranze etniche- come attrattiva per il turismo internazionale. Quelle riprese dal giornale sono perlopiù immagini storiche precedenti alla “liberazione” cinese: gruppi minoritari, “ritratti con abiti tradizionali durante attività culturali o mentre condividono i benefici della modernizzazione”. La loro inclusione nell’immaginario politico ufficiale stava a suggerire una piena integrazione nel sistema. La legittimazione del regime veniva così perseguita attraverso la rappresentazione di una popolazione partecipe e gioiosa, anche nelle aree più turbolente e periferiche dell’ex Impero Celeste.

Poi, agli inizi degli anni ’80, la comparsa dei primi messaggi pubblicitari ha aggiunto una nuova freccia alla faretra del soft power cinese. Il meno comunista tra tutti i “simboli” proposti dalla rivista pechinese annunciava ai lettori (sopratutto non cinesi) l’avviata transizione verso un’economia di mercato. Un gigante con una testa autoritaria e un corpo dominato da una certa forma di libero mercato stava prendendo vita.