Rai1, sabato 30 gennaio. Prima serata: Affari tuoi (Viva gli sposi!), 15,9% di share, spettatori 4 milioni 284mila. Seconda serata: Questo è un uomo, 6% di share, spettatori 1 milione 119mila. In questi due numeri, in questi due orari di trasmissione, in queste due tipologie di televisione sta un abisso. Un abisso di immaginari, di scelte di programmazione, di visione sul ruolo della tivù pubblica. Si è scelto di offrire nell’orario di maggior ascolto un gioco di pacchi che regala soldi senza chiedere nessun tipo di abilità, conoscenza, astuzia, ma solo un po’ di fortuna.

Quasi due ore dopo, alle 22,45, si è scelto di trasmettere Questo è un uomo, docu fiction diretta da Marco Turco e che ripercorre la figura e l’opera di Primo Levi attraverso un sapiente montaggio di vicende immaginate, documenti originali, interviste. Tutti sanno quanto conti, per la visibilità di un’opera, lo spazio in cui la si colloca. Se trasmetti un film a ora tarda è fisiologico che, anche se è un capolavoro, sarà visto da meno persone perché la gente a una certa ora ha sonno. È un po’ come esporre un libro in bella vista o infilarlo in fondo a uno scaffale, finisce che lo vedono solo quelli che lo vogliono trovare, poi è gioco facile dire che l’oggetto in questione non interessa.

Questo è un uomo, recuperabile su Raiplay, aveva tutte le caratteristiche per meritarsi gli onori della prima serata del sabato sera non solo perché si era a tre giorni dal Giorno della memoria, ma per una serie di ragioni così ovvie che sembra superfluo dirle: la necessità, con il rigurgito di nazionalismi e negazionismi, di riascoltare le voci di chi ha vissuto in prima persona gli orrori del nazismo e della shoah; l’universalità dei libri di Primo Levi divenuti dei classici conosciuti in tutto il mondo.

Poi ci sono molte altre ragioni. Il tocco del regista e dell’interprete, Thomas Trabacchi, hanno mostrato con mano scavante e sottile, senza mai caricare sul patetico, la complessità, i tormenti, l’intelligenza, lo sguardo e il percorso di Primo Levi uomo e scrittore.

Le scene immaginate (la scalata iniziale della pietraia, l’incidente alla caviglia, l’incontro con lo sconosciuto che lo soccorre, il dialogo spigoloso fra i due, lo svelamento finale) ridanno il corpo a corpo che fu vissuto da Levi con gli incubi, la solitudine, i sensi di colpa del sopravvissuto, la difficoltà di farsi ascoltare, le delusioni per i rifiuti. Fra questi, uno dei più cocenti fu quello di Einaudi per Se questo è un uomo, nel 1946. Gli fu comunicato da Natalia Ginzburg, allora consulente della casa editrice, che gli disse «Ma io qui sono l’ultima ruota del carro» (una delle prime era Cesare Pavese), salvo poi pubblicare il libro nel 1958.

Poi ci sono le incomprensioni di parte della comunità ebraica quando Levi chiese le dimissioni di Begin per la strage di Sabra e Shatila, l’ossessione di voler scavare, con I sommersi e i salvati, nella zona grigia dove stanno quelli che non si sono mai schierati. A cucire questi pezzi, in un montaggio che non tralascia nessun aspetto scomodo, entrano le testimonianze di amiche, amici, studiosi, critici.

Perché anteporre a tutto ciò un gioco di pacchi con soldi? Distrazione, un’idea povera della capacità critica e di empatia degli spettatori, volontà di non farli pensare troppo, mancanza di coraggio? Di certo quella contrapposizione stride e, soprattutto, dà un’idea plastica delle due Italie possibili, quella che ci vogliono propinare per addormentare le coscienze e quella che le cose le vuole sapere e le sa raccontare.

mariangela.mianiti@gmail.com