«All’inizio era un bel movimento. Avevano ragione. Qui non se ne può più di sopravvivere. Poi, però, sono cominciate le violenze. Sicuramente c’erano degli infiltrati. Non so chi ci fosse dietro. Forse lo Stato, l’esercito, i servizi. Ma c’erano infiltrati e servivano a screditare i gilet gialli». E’ bastato arrivare a Bordeaux e salire su un taxi perché il conducente, un quarantenne poliglotta, cominciasse a raccontare quello che per lui è stato il movimento dei gilet gialli. Una mobilitazione talmente fluida da sfuggire alle interpretazioni degli analisti che hanno provato, inutilmente, a spiegare quello che non conoscevano: il malessere di quel territorio che sta intorno a Parigi e si chiama Francia. Oggi dei gilet gialli non resta nulla, eppure, per almeno sei mesi hanno spaventato il presidente Macron.

NELL’AUTUNNO DEL 2018, il prezzo del carburante sale a 1,50 euro al litro. Il governo ha intanto previsto un ulteriore aumento delle tasse su benzina e gasolio. Esplode la rivolta. Su facebook si moltiplicano gli appelli alla mobilitazione. Sabato 17 novembre, 282mila persone indossano il loro gilet giallo, simbolo di chi per lavoro deve usare l’auto, e bloccano il paese in 2mila diversi punti. Le rotatorie diventano il luogo eletto per i blocchi della circolazione. Alla fine della giornata si contano un morto e 227 feriti. Il presidente Macron e l’esecutivo sono spiazzati.

NEL CORSO DELLE SETTIMANE seguenti, la partecipazione diminuisce sensibilmente. Non in grande numero, ma i gilet gialli sono dappertutto. Gli scontri tra dimostranti e forze dell’ordine, però, si fanno più duri. Entrano in scena i casseurs, i black bloc. A Parigi, ci sono scene di guerriglia sugli Champs-Elisées. Il governo rinuncia all’aumento delle tasse sul carburante, tuttavia, la pressione sull’esecutivo e sul presidente non si allenta. L’obiettivo del movimento è ormai costringere Macron e il governo alle dimissioni. Secondo un sondaggio l’84% dei francesi sostiene le proteste.

A BORDEAUX NON CI VUOLE molto perché la gente parli dei gilet gialli. Dal novembre 2018, ogni sabato, il centro della città girondina è stata teatro di scontri violentissimi tra manifestanti e forze dell’ordine. Fatima è una cameriera estremamente gentile di origini portoghesi di uno di quei bistrot che ti fanno accarezzare, quasi fossero veri, tutti i luoghi comuni sulla Francia in una cena soltanto e a un prezzo ragionevole. Si ferma al tavolo e racconta. «Io avrei anche avuto voglia di manifestare con loro. Il problema era che il sabato , quando c’erano i cortei, dovevo lavorare qui. Le loro ragioni erano anche le mie -dice sorridendo- ma poi hanno iniziato a insultarci, a chiamarci collaborazionisti, minacciavano noi e i clienti. Dovevamo chiuderci dentro». Racconta cose molto simili David, che ha un bar nel centro della città e non sembra riservare particolare simpatia ai gilet gialli. Sostiene che tra quelli che si sono visti a Bordeaux c’erano tutti i tipi di persone. Giovani e vecchi, gente dell’estrema sinistra ed elettori di Marine Le Pen. Per il momento, però, in 24 ore ancora non è successo di incontrarne uno. «E’ normale -dice – non era gente di qui. I gilet gialli venivano solo il sabato in città. Sono persone che vivono in provincia». E allora bisogna spostarsi.

SAINT NAZAIRE È UNA CITTÀ portuale, di neanche 70mila abitanti, sull’Atlantico, a meno di 400 km a nord-ovest di Bordeaux. Capire perché la rivolta sia partita dall’aumento del prezzo del carburante, comporta anche sperimentare cosa significhi non potersi permettere l’automobile. Ci si arriva in cinque ore di treno, facendo almeno due cambi. La rete ferroviaria francese vive sugli snodi e di snodi ce n’è solo uno, Parigi. Per andare da una città all’altra bisogna sperare che la propria tratta sia ricompresa in una più lunga che terminerà ineluttabilmente nella capitale. Altrimenti si cambia e si ricomincia a sperare. Saint Nazaire non è una scelta casuale. Qui, per la prima volta, i gilet gialli della zona hanno creato un quartier generale, un luogo fisico nel quale incontrarsi, la Maison du Peuple. A differenza di Bordeaux il reddito medio in città è più basso che nel resto della Francia. Al bar della stazione che guarda sui cantieri navali della STX, dai quali dipende l’economia della città, in molti sono già inequivocabilmente ubriachi. L’aria è pesante. E’ in corso una guerra tra bande per il controllo del traffico di stupefacenti. Si spara a Saint Nazaire. Ci sono già un morto e una bambina ferita. I 35 gradi inusuali e il cemento non aiutano ad attraversare il lungo viale che collega la stazione al centro. Tra negozi chiusi e vetrine infrante, si contano molte agenzie di lavoro interinale, qualche ristorante turco e alcuni strip club dal nome ammiccante.

DUE RAPPRESENTANTI del collettivo della Maison du Peuple, decidono di mostrare la loro sede. Un vecchio stabile occupato in centro. Marie e Killian, la prima un’impiegata sulla cinquantina, il secondo un ragazzo in tuta, che dimostra meno dei vent’anni che ha, sono due persone all’apparenza lontane tra loro. «Certo, l’aumento del carburante è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ma poi ci siamo resi conto che il problema non era il prezzo del gasolio in sé» sostiene Killian che, come Marie, dice di non essersi mai interessato alla politica prima dell’inizio del movimento. «Eravamo stanchi -continua- di non contare niente, quasi non esistessimo». Il giovane racconta che la partecipazione alla mobilitazione era aperta a tutti, l’importante era che non ci fossero legami con i partiti politici. Le istanze, spesso contraddittorie, del movimento, dalla richiesta di un abbassamento delle tasse a quella di un miglioramento dei servizi pubblici, raccontano di un accordo implicito tra lo Stato e la Francia profonda che è stato tradito. L’aumento del costo del carburante non spiegherebbe, da solo, una rivolta durata per parecchi mesi, se non fosse legato al disinvestimento costante da parte di Parigi sui servizi pubblici.

Ecco perché più ci si allontana dai grandi centri, più il fenomeno sembra essere stato radicato. Le grandi città dove si svolgevano le manifestazioni erano inconsapevoli teatri di posa che nulla conoscevano delle ragioni che portavano i gilet gialli a spostarsi dalle campagne. «Le persone avevano bisogno di sapere che non erano sole, avevano bisogno di un luogo nel quale incontrarsi», dice Marie. L’impressione è che la mobilitazione sia stata soprattutto l’occasione per unire tante storie personali, spesso di solitudine, esasperata dall’isolamento e dalle difficoltà economiche, che si sono ritrovate nei blocchi stradali.

KILLIAN CE L’HA CON LA POLIZIA. Dice che, davanti agli abusi delle forze dell’ordine, avrebbe avuto voglia di diventare un casseur. Le violenze di piazza e la gestione dell’ordine pubblico sono state al centro del dibattito. Secondo il settimanale L’Express, undici persone hanno perso la vita nel corso delle manifestazioni, due sono morte per arresto cardiaco, un’anziana donna è deceduta perché colpita in casa da un lacrimogeno. Si sono registrati 4439 feriti, 1944 tra le forze dell’ordine e 2495 tra i gilet gialli. Tra questi ultimi, 24 hanno perso un occhio, cinque una mano e uno ha subito l’amputazione di un testicolo. Queste gravi ferite sono state provocate dagli LBD (fucili che sparano proiettili in plastica dura) utilizzati in quasi 13mila differenti occasioni.

Anche la risposta giudiziaria è stata particolarmente decisa. Nel solo periodo novembre 2018-giugno 2019, più di 10mila gilet gialli sono stati arrestati, 3100 condannati e, di questi, 400 immediatamente condotti in carcere. I due attivisti non amano i sindacati, anche se qui sono rappresentati, idealmente, dai dockers, i portuali, che più di una volta li hanno salvati dalle cariche della polizia.. «Non vogliamo gente del sindacato. La pensiamo diversamente –dice ancora oggi Killian- loro vogliono fermare l’economia smettendo di lavorare. Noi vogliamo bloccare tutto». Eppure, quando si chiede quale sarebbe la loro idea di paese, tutto diventa vago. Parlano di ritrovare l’umanità, di lavoro per tutti, ma nessuno dei due è capace di spiegare in che modo. Uscendo dalla Maison du Peuple, resta il dubbio di non aver capito cosa volessero davvero i gilet gialli.

LA POCA ESPERIENZA POLITICA è un aspetto che torna spesso nei racconti di chi ne ha fatto parte, insieme al totale rifiuto di etichette o di un avvicinamento ai partiti che, dall’opposizione, hanno provato a sfruttare la rivolta. Non è un caso, dunque, se ogni tentativo di leadership è stata abortito. E non è un caso se le due liste che si rifacevano direttamente ai gilet gialli hanno raccolto alle elezioni europee del 2019 soltanto lo 0,55 per cento. L’unica proposta politica prodotta dal movimento è stata la richiesta di attivazione di un referendum d’iniziativa popolare.

QUELLO CHE È SUCCESSO a Saint Nazaire è troppo particolare per spiegare tutta la mobilitazione dei gilet gialli. E’ meglio addentrarsi nelle viscere della Francia rurale, verso il centro del paese. Almeno finché il treno lo permette. Si arriva a Chatellerault, quasi 30 mila abitanti nel dipartimento della Vienne. In questo piccolo centro, che vive grazie al distretto dell’automobile, il reddito medio, circa 1500 euro al mese, è inferiore di più di 200 euro a quello del resto della Francia, il che lo colloca nel 30% più povero del paese. In centro ci sono più negozi chiusi che aperti. I grandi gruppi immobiliari si occupano di affittare o vendere vetrine, desolatamente abbandonate e ricolme di posta mai ritirata e volantini pubblicitari.

SYLVIANE, CINQUANTENNE impiegata in un’azienda del distretto automobilistico, racconta di aver partecipato al movimento con entusiasmo dall’inizio, ma di essersene poi allontanata. A Chatellerault, la partecipazione è stata massiccia nelle prime fasi. “Migliaia di persone”, sostiene la donna. Poi c’è stato l’incendio della Main Jaune, un monumento dedicato all’industria automobilistica, del quale sono stati direttamente accusati i gilet gialli. «Ho lasciato il movimento perché ero disgustata dalla violenza e da come molti, che non c’entravano niente, approfittassero della nostra buona fede».

«IL PROBLEMA ERA LA MANCANZA di organizzazione. Non avevano neanche un servizio d’ordine durante le manifestazioni», afferma convinto Jean-Claude, pensionato della pubblica amministrazione e storico sindacalista Cgt (la Cgil francese). «Certo -spiega meglio l’uomo- le rivendicazioni dei gilet gialli erano confusionarie, potremmo dire di destra, legate a un approccio profondamente individualista, però esiste un problema, soprattutto in dipartimenti come questo, completamente abbandonati dallo Stato. Se penso agli uffici pubblici, negli ultimi anni, gli effettivi sono stati dimezzati. E anche i trasporti sono peggiorati.

E’ la presenza stessa dello Stato a essere in discussione». Sembra quasi che i gilet gialli abbiano messo in luce il conflitto tra campagna e città, tra Parigi e la periferia, non quella delle banlieues, che non hanno preso parte alla rivolta, ma quella rurale, che si sente dimenticata da Parigi. Il 26 ottobre 2019 solo 13.250 persone in tutto il paese hanno manifestato indossando il gilet catarifrangente. E’ stata la fine di un movimento già agonizzante. Poco più di un mese dopo sono cominciate le proteste contro la riforma delle pensioni. Una mobilitazione guidata dai sindacati, numericamente imponente, che ha fatto dimenticare i gilet gialli.

Per il prossimo 12 settembre, uno dei profili facebook più seguiti del movimento ha invitato tutti i francesi a bloccare il paese, sfidando i sindacati, che invece contro le politiche del governo scenderanno in piazza il 17, a unirsi alla mobilitazione. I numeri della partecipazione, se mai dovessero essere comparabili, sapranno dire se i gilet gialli fanno definitivamente parte del passato, pur recente, della Francia.