Nell’accampamento Levante pela Terra, promosso nella spianata dei ministeri a Brasilia da circa 850 indigeni di 48 diversi popoli di tutto il paese, la parola d’ordine è resistenza. Resistenza contro il disegno di legge 490/2007 che, in caso di approvazione parlamentare, renderebbe di fatto irrealizzabili le demarcazioni dei territori indigeni e, più in generale, contro l’offensiva scatenata a tutti i livelli dal governo Bolsonaro contro i diritti dei popoli originari consacrati dalla Costituzione.

«Stiamo qui perché non abbiamo altra scelta», ha spiegato Kretã Kaingang, coordinatore esecutivo dell’Apib, l’Articulação dos Povos Indígenas do Brasil. Ma la lotta si è estesa anche a São Paulo, dove mercoledì un gruppo di Guaraní-Mbya ha occupato le torri di trasmissione televisiva sulla cima del parco Jaraguá per protesta non solo contro l’incostituzionale disegno di legge, ma anche contro la nomina di Joaquim Álvaro Pereira Leite come nuovo ministro dell’Ambiente.

Una sorta di clone del suo predecessore Ricardo Salles, membro di una famiglia di produttori di caffè di São Paulo coinvolta in una causa legale per il possesso di una parte dell’area indigena Jaraguá, e i cui capataz non hanno esitato a distruggere la casa di una famiglia indigena per tentare di espellerla dal territorio.

Non mancano neppure le pressioni sul Supremo tribunale federale, affinché si pronunci contro la cosiddetta tesi del “quadro temporale”, secondo cui avrebbero diritto alla terra solo gli indigeni in grado di dimostrare la loro presenza nell’area rivendicata alla data di promulgazione della Costituzione, il 5 ottobre del 1988, come se tutto il violento processo della colonizzazione, peraltro ancora in corso, non fosse mai esistito.

E mentre il Stf ha rinviato ad agosto l’attesissimo e decisivo giudizio sull’interpretazione di tale «marco temporal» – definito il «processo del secolo sulle terre indigene» -, esiste ora un nuovo strumento in grado di dare voce e visibilità politica ai 305 popoli originari del paese: il Parlamento Indigeno, o ParlaÍndio, creato alla fine di maggio da una ventina di prestigiosi rappresentanti di diversi popoli, a partire dalla proposta lanciata già nel 2016 dal cacique Raoni Metuktire, attuale presidente onorario dell’organismo. Un piccolo ma determinatissimo Davide contro il Golia della lobby ruralista, con i suoi 241 deputati e 39 senatori (a fronte di una sola parlamentare indigena, Joenia Wapichana).

Primo atto politico deciso dal ParlaÍndio è un’azione legale per chiedere la rimozione di Marcelo Xavier dalla presidenza della Funai, la Fondazione nazionale dell’indio ribattezzata dal Levante pela terra «Fondazione di intimidazione dell’indio»: è su richiesta di Xavier che la Polizia federale ha infatti aperto un’indagine contro il coordinatore del ParlaÍndio Almir Suruí e la coordinatrice dell’Apib Sonia Guajajara per diffamazione contro il governo federale.

Ma i popoli indigeni non solo i soli a protestare contro il governo. È prevista infatti per oggi una nuova mobilitazione nazionale, al grido «Fora Bolsonaro», dopo le grandi giornate di protesta del 29 maggio e del 19 giugno. Tra le rivendicazioni espresse nelle oltre 260 manifestazioni confermate, oltre a quelle riguardanti l’approvazione del sussidio di emergenza e la vaccinazione di massa contro il Covid, c’è anche la richiesta al presidente della Camera Arthur Lira ad accogliere il cosiddetto «Superpedido» di impeachment contro Bolsonaro: una petizione che unifica oltre 120 richieste di destituzione già protocollate, presentata da partiti di sinistra, movimenti sociali e persino politici di destra, con l’elenco di tutti i crimini commessi dal presidente dall’inizio del suo mandato.