«L’Europa manda un messaggio importante: ci battiamo per i diritti di tutti gli europei, ivi compresi i cittadini ungheresi, e difendiamo i valori dell’Unione», così Judith Sargentini, la deputata verde olandese relatrice del rapporto che denuncia l’attacco “sistemico” del regime ungherese ai valori della Ue e propone di avviare la procedura dell’articolo 7 contro il governo di Viktor Orbán, ha commentato il risultato del “voto storico” di ieri. L’Europarlamento ha votato con 448 voti a favore, 197 contrari e 48 astensioni (693 votanti su 751 parlamentari), superando lo sbarramento richiesto della maggioranza di due terzi. È un primo atto formale di una battaglia che sarà in campo aperto alle elezioni europee di maggio e che si annuncia estremamente violenta. Il fronte illiberale, come ha mostrato l’intervento di Orbán a Strasburgo martedì, non intende cedere nulla e vuole lo scontro frontale.

La destra del Ppe, a cui appartiene la Fidezs di Orbán, esce spaccata, ci sono stati 116 voti a favore dell’articolo 7 e solo 57 voti pro-Orbán (e molti deputati assenti). Il presidente del gruppo, Manfred Weber, pur dichiarandosi personalmente a favore dell’articolo 7, aveva lasciato libertà ai membri. Forza Italia ha votato contro, gli spagnoli si sono divisi al loro interno, tra voto contro e astensione, i francesi sono andati in ordine sparso (con 3 voti contro l’articolo 7), anche se il vecchio presidente del Ppe, Joseph Daul, aveva affermato che «l’Ue è fondata su libertà, democrazia, eguaglianza, stato di diritto, rispetto dei diritti umani, una società civile libera e il Ppe non fa compromessi su questo» (ma ormai la direzione dei Républicains, con Laurent Wauquiez, è in piena deriva populista). Lo schieramento nella destra classica che mira a un’unità con l’estrema destra è sceso in campo a difesa di Orbán. Invece, i nordici, il Benelux e una grossa parte dei tedeschi hanno approvato l’avvio della procedura dell’articolo 7. Per il Ppe si apre ora una fase di ricomposizione, che come prima mossa potrebbe portare, alla riunione della prossima settimana a Helsinki, all’esclusione della Fidesz. Ma l’Ungheria minimizza: il voto è solo «una piccola vendetta dei pro-immigrazione», mentre Orbán insiste sul fatto che «non lascerò il Ppe, è Helmut Kohl che mi ha invitato e lui è morto», mettendo in guardia su Macron, che «si serve della nostra debolezza per distruggere il Ppe».

L’Eliseo si è congratulato ieri con il voto di Strasburgo. La ministra degli Affari europei, Nathalie Loiseau, ha sottolineato che il voto mette fine a «dieci anni di cecità e di silenzio colpevole su ciò che succede in Ungheria, in particolare da parte di coloro che, pensando che opporsi al populismo significa nutrirlo, hanno preferito scendere a patti con il populismo lasciandolo crescere».

 

È la prima volta che l’Europarlamento vota per avviare la procedura dell’articolo 7, che è stato invocato, ma dalla Commissione, solo per la Polonia di Jeroslaw Kaczynski un anno fa, con una procedura che da allora non ha praticamente fatto passi avanti. Il voto sul regime ungherese potrebbe quindi restare un atto simbolico, anche se importante. Sarà difficile arrivare alla fine del processo, che prevede la sospensione della partecipazione al Consiglio e richiede un voto dei paesi membri, dove un gruppo potrebbe opporsi, a cominciare dalla Polonia (ma non solo: tra i probabili amici di Orbán ci sono Italia, Slovacchia, Romania, Repubblica ceca, Malta, in un terzo dei 27 governi Ue ci sono formazioni di estrema destra). Il rapporto di Judith Sargentini ha individuato le violazioni dello stato di diritto in Ungheria da quando Orbán è tornato al potere nel 2010: minacce alla libertà di stampa, di associazione e di insegnamento, rimessa in causa dell’indipendenza della giustizia, attacco ai migranti, ritorno dell’antisemitismo, corruzione.

Al voto, ha fatto eco il discorso di Jean-Claude Juncker sullo Stato dell’Unione. Nell’ultimo intervento del mandato, il presidente della Commissione ha invitato l’Europa a «restare un continente di apertura, di tolleranza». L’Europa «non sarà un’isola, resterà multilaterale». Un appello ai cittadini perché capiscano che la «geopolitica ci insegna che l’ora della sovranità europea è arrivata» e che questa non è in contrasto con quella degli stati, che non devono «cedere a tentazioni nazionaliste». Ci sono vari fattori che potrebbero alimentare l’ottimismo, dice Juncker, la crisi del 2008 è finita, anche se i guasti creati non sono riassorbiti. Ma lo stato dell’Unione sono anche le forze della chiusura: Juncker ha annunciato il rafforzamento del corpo dei guardia-frontiere, portati a 10mila uomini e l’accelerazione dei rimpatri, misure parzialmente bilanciate dall’impegno sull’Agenzia europea per l’asilo e l’apertura di vie legali per l’immigrazione, di cui l’Europa ha bisogno. Juncker ha anche annunciato che non ci sarà più il cambio di ora, tra solare e legale. Gli stati dovranno mettersi d’accordo su quale scegliere o andare ognuno per conto suo.