I tentativi di istituire una web tax europea, di cui si discute da anni, finora sono andati a vuoto. La questione non è secondaria dal momento che tutti i governi, non solo il nostro, sono alle prese con un debito pubblico in crescita per l’emergenza sanitaria e i drammatici problemi che comporta. Cala il Pil, aumentano povertà e disoccupazione, ma i più ricchi diventano ancora più ricchi.

Le web company, in particolare, hanno visto pressoché raddoppiare il fatturato e gli utili, grazie anche al fatto che negli Usa e in Europa pagano tasse irrisorie. Il grosso della liquidità personale dei padroni del web è ben custodito nei paradisi fiscali. Parliamo di ricchezze smisurate. Ebbene, tra i 28 paesi dell’Ue non c’è accordo nemmeno su una web tax minima (magari ristretta agli introiti pubblicitari).

Qual è l’impedimento? Secondo gli accordi internazionali, per poter tassare in loco il reddito di un soggetto estero bisogna individuare una “stabile organizzazione”, una postazione fisicamente identificabile. Se manca la postazione non esistono i presupposti per tassare la ricchezza pur prelevata sul posto. Un cavillo giuridico, un pretesto che, però, da anni blocca ogni decisione.

Intanto i patrimoni dei big della Silicon Valley continuano a crescere. Sono gli utenti della rete a fornire (gratis) la materia prima da cui le web company estraggono valore. A loro volta i big data, opportunamente trattati, forniscono la benzina che alimenta la pubblicità e i servizi. La ricchezza digitale si genera, insomma, con un continuo processo di elaborazione e trasformazione dei degli utenti dei servizi online.

È in definitiva la quantità delle postazioni fisse e mobili, la base fisica, concreta, non virtuale, che determina il volume d’affari delle web company (pubblicità, programmi software e hardware, servizi cloud, prodotti vari). Cresce il numero di utenti, crescono i profitti. Lo stallo in cui si trova la discussione sulla web tax si supera ingaggiando una battaglia culturale, politica e sindacale contro la falsa convinzione che la rivoluzione digitale debba procedere senza freni, a briglie sciolte. Il mercato si autoregola, è il credo liberista. L’esperienza insegna che le innovazioni tecnologiche vanno guidate, non subite.

Internet ci ha semplificato la vita, fa parte ormai del nostro quotidiano e ci accompagnerà nel futuro. Smart working e didattica a distanza hanno stanno cambiando radicalmente le modalità di lavoro e di studio. L’intelligenza artificiale è di grande aiuto nella ricerca, nell’organizzazione del lavoro, nella progettazione e realizzazione di nuove tecniche e di nuovi prodotti nel campo della mobilità, delle politiche ambientali, della medicina, e così via.

Ma l’altra faccia della medaglia è lo sconvolgimento delle relazioni sociali e del mondo in cui siamo cresciuti e che abbiamo condiviso da diverse generazioni. Le compagnie digitali prendono tutto quello che trovano sul loro cammino: le banche, l’editoria, le librerie, le edicole, le agenzie di viaggio, i cinema, i negozi e tanto altro ancora.

La loro bulimia determina la distruzione del tessuto commerciale, creditizio e culturale e la perdita di milioni di posti di lavoro. Con la pandemia c’è stata un’accelerazione di questi processi. E rischiano di diventare incontrollabili le tensioni sociali derivanti dalla disoccupazione, dal disagio diffuso e dalle vecchie e nuove povertà.

Di fronte a uno scenario così preoccupante, dove trovare le risorse per una sfida che non ha precedenti? E’ davvero inspiegabile la riluttanza dell’Ue nei confronti della web tax. Tanto più immotivata in quanto una parte consistente degli investimenti del Next Generation Eu sarà spesa per realizzare la banda ultra larga e il 5G, dando un impulso formidabile alla digitalizzazione delle aziende, della pubblica amministrazione e dell’intera società.

I governi mettono i soldi per le autostrade digitali, per le infrastrutture, alle aziende private vanno i guadagni. Ma così disuguaglianze, problemi e difficoltà sono destinati ad aumentare. La strada maestra è far pagare tasse congrue ai magnati del web, affermando la supremazia del potere pubblico rispetto agli interessi privati. Prelevare risorse da chi finora ci ha guadagnato di più per trasferirle ai settori della società in crisi è un atto di equità.