Nella baia di New York, a Liberty Island, c’è uno dei monumenti più famosi del mondo: la Statua della libertà. Un simbolo di liberazione dal ricatto, dalla schiavitù, rappresentato da quelle catene spezzate ai piedi della statua che dicono: nessun individuo può essere privato della sua libertà.

A pochi metri, c’è un isolotto meno conosciuto: Ellis Island. Tra la fine dell’Ottocento e per gran parte del Novecento era terra di sbarco per centinaia di migliaia di migranti in cerca di opportunità. In tanti vedevano nel Nuovo Mondo una speranza, impegnavano i propri averi in cerca di una nuova vita, di fortuna, di un sogno da acciuffare. Attraversavano l’oceano in nave, prevalentemente dall’Europa. I più ricchi se la passavano bene: viaggiavano in prima o seconda classe, erano integrati a bordo e una volta sbarcati, pochi controlli e lasciati andare. I poveri no. Quelli viaggiavano in terza classe. Magari avevano speso fino all’ultimo centesimo per un biglietto di sola andata, scommettendo su un futuro incerto. E quando sbarcavano, a Ellis Island, venivano sottoposti a umilianti interrogatori, ispezioni, trattamenti mentali e sanitari. Divenne famosa come «l’Isola delle lacrime».

Oggi nel 2014 l’Isola delle lacrime è in terra d’Europa. Si chiama Lampedusa, si chiama Italia, si chiama Europa, dove tante, troppe isole delle lacrime prendono il nome di Centri di detenzione (Cie in Italia), ma che dovrebbero chiamarsi lager per la brutalità con cui vengono trattate le persone. 473 centri in cui ogni anno vengono detenuti migliaia di migranti per un tempo indefinito che può arrivare fino a un anno e mezzo. Il motivo? Nessuno reato commesso, ma la colpa di non possedere il permesso di soggiorno. Si stimano che siano detenute almeno 37.000 persone.

Nessuna politica di accoglienza comune, politiche di integrazione insufficienti, viaggi disperati, spesso segnati dalla morte. Sono i simboli dell’Europa della paura che impone l’austerity, i tagli draconiani alla spesa pubblica, che intima di risanare i bilanci greci ma poi se ne frega dell’aumento dei bambini senza cura, delle persone che muoiono carbonizzate perché non in grado di pagarsi l’elettricità e costrette a usare vecchie stufe ad olio.

L’Europa che smantella lo Stato sociale, che vede la povertà dilagare. Che diventa fortezza e che spende milioni di euro per militarizzare le frontiere. Per difendersi. Per poi scoprire che ci siamo armati e difesi da chi cerca rifugio dalla guerre e si mette su barche più simile a zattere che a navi, da chi muore con un bimbo fra le braccia o sbarca stremato sulle nostre coste.

Quei 25.000 morti che fanno del Mar Mediterraneo il più grande cimitero d’Europa sono il simbolo terribile di un sogno europeo disatteso. Sono la fotografia impietosa di una classe dirigente imbarazzante. Che di giorno piange i morti e le tragedie, ma di notte continua ad avallare le politiche che quelle morti determinano.

È l’Europa dei tecnocrati, delle larghe intese, dei grandi poteri finanziari che, come in un gioco di specchi deformanti, trova come contrappeso il fronte nazionalista, razzista, antieuropeista. Un fronte che trova linfa nella disperante povertà e alimenta rancore e rabbia verso l’altro, in una guerra tra poveri.

Stiamo celebrando la giornata internazionale contro il razzismo. E noi vogliamo candidare l’Europa a essere terra libera, solidale, accogliente. Perché questo vogliamo fare con «L’altra Europa con Tsipras»: candidarci a guidare un Continente che si prende cura di tutti. Non solo per farne una questione di civiltà, ma perché arricchirsi di culture, di lingue, di sensibilità è una crescita per tutti. Umana, sociale ed economica. Questa è la nostra Altra Europa.