La discussione di fondo sui “valori fondamentali” dell’Unione europea a proposito della legge ungherese, che rappresenta una «minaccia contro i diritti fondamentali, in particolare il principio di non-discriminazione a causa dell’orientamento sessuale», come è scritto nella lettera firmata da 17 capi di stato e di governo (18 se si tiene conto della “favorevole neutralità” del Portogallo, che ha la presidenza del Consiglio Ue), «non è mai stata così profonda e onesta, almeno per quanto mi ricordi» ha commentato Angela Merkel, al suo ultimo vertice dei capi di stato e di governo e veterana dei summit. In primo piano, anche gli altri due primi ministri da più tempo in carica tra i 27: su fronti opposti, l’ungherese Viktor Orbán e l’olandese Mark Rutte, che ha invitato l’Ungheria a uscire dalla Ue se non è d’accordo con i suoi fondamenti.

LA SPACCATURA È tra l’ovest e il nord da un lato (tra i 17 ci sono tutti i paesi della “vecchia Europa” e dall’est hanno aderito solo Estonia e Lettonia) e la cosiddetta “nuova Europa” dall’altro. «Non è un problema Viktor Orbán – ha commentato Emmanuel Macron – ma il crescente anti-liberalismo di società che oggi sono attratte da modelli politici contrari ai nostri valori»: succede in Ungheria, in Polonia, ma anche altrove, «come arrivano a questo alcuni popoli?». Per Macron siamo di fronte a «una forma di deriva», che va contrastata ridando «contenuto, prospettiva, senso» alle forze democratiche.

La Commissione, con una lettera inviata a Orbán dai commissari Didier Reynders (Giustizia) e Thierry Breton (Mercato interno), attende una risposta entro fine mese per poi, eventualmente, agire contro Budapest. Contro l’Ungheria è già stato utilizzato l’articolo 7, per il non rispetto dello stato di diritto (come contro la Polonia), c’è stato il riferimento alla “condizionalità” dei versamenti del Recovery Plan: ma entrambe queste iniziative sono di fatto spuntate, la prima per i tempi lunghi della procedura, che prevede alla fine un voto all’unanimità che non ci sarà (Polonia e Ungheria si tengono bordone), la seconda è stata annacquata e congelata in attesa del risultato del ricorso di Budapest e Varsavia alla Corte di Giustizia, che non prevede una sentenza prima di due anni. Le ultime minacce rischiano di fare la stessa fine (molti paesi, anche la Francia, non sono d’accordo nel “punire” finanziariamente l’Ungheria).

La reazione della Ue, questa volta è stata importante e onesta, come dice Merkel. Segna anche l’esistenza di un’opinione pubblica europea, in un’Unione accusata di essere un non-stato senz’anima. Ma non è il primo scarto guidato da Orbán.

NEL 2015, AL MOMENTO della “crisi dei migranti” a causa della guerra in Siria, l’Ungheria era stata alla punta del rifiuto della solidarietà dell’accoglienza. Anche allora erano stati evocati i “valori”, ma senza grande forza. L’accoglienza della Germania, in quell’occasione, aveva salvato l’anima della Ue. Ma, con il passare del tempo, è purtroppo la “linea Orbán” che ha avuto la meglio. Al Consiglio europeo, ai paesi del sud (Italia, Grecia, Spagna) che chiedono di non essere lasciati soli, non solo l’est ha di nuovo alzato il muro del rifiuto di condividere il “fardello”. Anche i grandi paesi che sono già in campagna elettorale – Germania e Francia – hanno optato per la soluzione del denaro e del rafforzamento delle “difese”, nel bilancio Ue 2021-2027 ci sono 18 miliardi destinati al controllo delle frontiere esterne e al contenimento dell’immigrazione non voluta. La Commissione propone dei “canali legali” di entrata, ma la questione è a un punto morto.

IL PATTO GLOBALE per la migrazione, proposto dalla Commissione nel settembre 2020 resta nei cassetti, a parte l’accordo sull’Agenzia per l’asilo. Nessuno solleva il rispetto dei “valori”, quando l’International Rescue Committee parla di condizioni “orribili” di detenzione dei migranti in Libia o quando vengono rivelati i numeri dei morti nel Mediterraneo (più di 500 dall’inizio dell’anno).

L’Europa fortezza si barrica dietro Frontex e ignora le inchieste che denunciano le pratiche dei respingimenti. La Ue punta a risolvere i problemi con i soldi, altri 3,5 miliardi alla Turchia con il rinnovo dell’accordo del 2016, perché si tenga gli esuli siriani, finanziamenti anche per Giordania e Libano, “formazione” per i guardiacoste libici. Ai paesi d’origine, reticenti a riprendersi i loro cittadini arrivati illegalmente nella Ue, per esempio la Tunisia, gli aiuti finanziari sono correlati a minacce sui visti, che saranno limitati se non accettano i ritorni forzati.

In Danimarca, il governo a guida social-democratica, propone di “esternalizzare” verso paesi africani – nella lista ci sono Ruanda e Egitto – i richiedenti asilo e l’analisi delle richieste, per evitare arrivi precipitati sul territorio poi difficile da gestire. La Grecia costruisce muri.