C’è sempre qualcuno che dice a voce alta che il re è nudo, sollevando costernazione. Stavolta è toccato al capogruppo della Lega alla Camera, Molinari: «O si cambia la destinazione dei fondi o spenderli per spenderli non ha senso. Forse sarebbe il caso di valutare la rinuncia a una parte dei fondi a debito. Ha senso indebitarsi con la Ue per fare cose che non servono?». Sarebbe una bomba comunque ma lo è tanto più in quanto più o meno nello stesso momento, dal Vinitaly di Verona, la premier garantiva l’esatto opposto: «Non prendo in considerazione l’ipotesi di perdere le risorse ma di farle arrivare a terra in modo efficace. I ritardi non ci preoccupano. Stiamo lavorando molto».

La sortita di Molinari costringe però palazzo Chigi, qualche ora dopo, a tornare sulla faccenda, stavolta in modo informale: «Stiamo lavorando per rimodulare il Piano ma l’idea di rinunciare a parte dei fondi non è sul tavolo». Qualcuno aggiunge una specifica importante: «Almeno per ora».

In realtà tutti, sul Colle come a palazzo Chigi, sanno perfettamente che quel che non è sul tavolo oggi potrà esserci domani e anzi è probabile che proprio così finisca. Per quanto la Ue possa accettare rimodulazioni del Piano, spostamenti di alcuni progetti dal Pnrr alla Coesione, che scade tre anni più tardi, o nel Fondo di sviluppo e coesione, che non ha data di scadenza, per quanto la Commissione possa concedere di eliminare alcuni progetti e sostituirne altri, la possibilità di riuscire a spendere tutti i 209 miliardi nel Next Generation Eu è remota. Ma una cosa è saperlo e altra è dirlo. Non per questione di bon ton ma perché ammettere in partenza che spendere tutti i fondi potrebbe rivelarsi impossibile sarebbe disastroso. Lo sarebbe sul piano interno, dove l’opposizione è saltata alla gola del governo un secondo dopo l’esternazione di Molinari, e lo sarebbe su quello europeo perché così la trattativa per rivedere e in parte riscrivere il Piano partirebbe nelle condizioni peggiori. Ma di questo Molinari, che non è un novellino né uno sprovveduto, è certamente cosciente. Se ha deciso di scoprire così il gioco è perché nella Lega circolano dubbi in quantità sulla scommessa decisa da Draghi, cioè sulla scelta di accedere, unico Paese europeo a farlo, all’intera somma messa a disposizione dalla Ue: inclusi gli oltre 130 miliardi di prestiti da restituire.

La premier però è decisa a battere il sentiero tracciato da Draghi, con un obiettivo condiviso in pieno dal Colle: realizzare quante più opere e prendere quanti più fondi possibile. Se non sarà il 100%, e non lo sarà comunque, bisogna almeno avvicinarsi a quel traguardo. Certo la strada è impervia e la lentezza con la quale procede il decreto Pnrr al Senato non autorizza grande ottimismo. Il decreto sarebbe dovuto arrivare in aula oggi, in tempo per essere approvato prima di pasqua, per poi arrivare nell’aula di Montecitorio il 17 aprile, con tutto il tempo necessario per farcela entro il 25 aprile, termine ultimo per la conversione. Invece il testo è fermo da un mese nella palude della commissione, paralizzato da centinaia di emendamenti della stessa maggioranza e nessuno ne ha presentati più di FdI. Ora si aspettano i nuovi emendamenti del governo, che dovrebbero sbloccare la situazione per quanto riguarda la terza tranche del Recovery almeno sul fronte dei lavori portuali e della governance del Piano, cioè di due dei principali rilievi che hanno spinto la commissione a prorogare per due mesi consecutivi lo sblocco della tranche. Il terzo rilievo, il no europeo allo stadio di Firenze e al Bosco dello sport di Venezia, dovrebbe essere risolto entro aprile, non col decreto ma con provvedimenti amministrativi. Sempre che si riescano a convincere i sindaci delle due città interessate, che al momento non vogliono saperne di rinunciare ai loro megaprogetti.
Giovedì, infine, il governo varerà un ulteriore decreto che formalmente non riguarda il Pnrr, dal momento che sarà valido anche per i comuni che non hanno in agenda opere legate al Piano, ma che è pensato proprio per velocizzare le cose su quel fronte: si tratta di centinaia di assunzioni nella pubblica amministrazione, con aumenti di stipendio, assunzione a tempo di pensionati e congelamento dell’entrata in pensione dei dirigenti necessari per premere l’acceleratore a tavoletta.

In questo quadro di emergenza reale, è singolare il giallo che si è snodato intorno all’indiscrezione di alcuni giornali secondo cui, prima del colloquio con la premier della settimana scorsa, il capo dello Stato avrebbe incontrato sia Draghi che il commissario europeo Gentiloni. Il Quirinale smentisce con una certa ironia, parlando di «divertito stupore». In realtà l’incontro con Draghi risale a due settimane fa. I colloqui telefonici con Gentiloni sono più recenti. Sullo stato delle cose il particolare non incide affatto.