Se ne parla poco, ma il super-euro rischia di mandare in frantumi il castello costruito in eurolandia in questi anni a colpi di austerità e di riforme strutturali.

La ripresa, che coinvolge l’Europa nella sua interezza, è trainata essenzialmente dall’export (dentro e fuori il mercato unico), secondo uno schema neo-mercantilista che la Germania, complice la crisi, ha finito per imporre a tutti i partner del sodalizio comunitario. Bassi salari e bassa domanda in patria, ricerca del profitto sui mercati esteri. Un modello ispirato alla logica della massima competitività possibile, a sua volta ottenuta a scapito del lavoro e del welfare state (salario indiretto).

A suo modo, un modello di successo, se si mettono sotto il tappeto i numeri della povertà e della disoccupazione, le statistiche sulla crescita delle disuguaglianze, il modo in cui la ricchezza prodotta si distribuisce.

Di successo perché la crescita è tornata (+2,4% in zona euro nel 2017), perché tutte le bilance commerciali sono in attivo, perché «la crisi è ormai alle spalle», come ci sentiamo ripetere da un po’ di tempo a questa parte.

In questo quadretto a colori, tuttavia, c’è una piccola macchia grigia, che gli osservatori più attenti incominciano a guardare con una certa attenzione (e un certo sospetto): la corsa dell’euro.

Dopo aver chiuso il 2017 con un balzo da record (il più forte dal 2003), oggi la moneta unica continua a viaggiare sopra la quota di un dollaro e venti, lontana dal picco del 2008 (1,60 dollari per un euro), certo, ma pur sempre troppo apprezzata, se si considerano i livelli di cambio degli ultimi due anni. Gli stessi che hanno giocato un ruolo non trascurabile nel rafforzamento dell’export europeo, insieme alla dinamica salariale, alle politiche pubbliche e di bilancio.

Il timore, più che fondato, è che questo euro troppo forte, non solo nei confronti della moneta verde, possa mettere il freno alle esportazioni, con ricadute pericolose sull’economia europea, proprio adesso che si dovrà iniziare a fare i conti con un raffreddamento del Quantitative easing.

Per un Paese come l’Italia, fanalino di coda in Europa, un calo significativo – o un crollo, nella peggiore delle ipotesi – dell’export (e del turismo, che dal cambio dipende molto) potrebbe rivelarsi addirittura esiziale, perché farebbe tornare lo spettro della recessione, perché metterebbe a repentaglio la sua stabilità finanziaria.

Non dimentichiamo che nella ripresa italiana hanno giocato non poco le esportazioni verso paesi extra-Ue, con un +10% nel 2017 rispetto all’anno precedente, che è valso un piazzamento al nono posto nella classifica dei principali Paesi esportatori verso gli Usa (abbiamo recuperato due posizioni, superando la Francia).

Un arretramento del Pil, per di più, riporterebbe nuovamente a galla la questione del debito e della sua sostenibilità (si va verso i 2.500 miliardi di euro), aprendo, di conseguenza, la strada ad un nuovo braccio di ferro con Bruxelles sugli obiettivi di medio termine (più austerità).

Scenario improbabile? Forse. D’altronde, dell’economia tutto si può dire tranne che si tratti di una scienza esatta. Basti pensare che uno starnuto di Kim Jong-un può influire sull’andamento del dollaro (nel qual caso indebolendolo)!

I mercati, però, che vivono di previsioni ed azzardi futurologici, qualche segnale già lo stanno dando, affossando alcuni titoli legati ai colossi dell’export.

Perché investire in azioni di imprese o grossi gruppi il cui fatturato dipende per la gran parte dal mercato estero, se l’export potrebbe subire una contrazione per colpa dell’euro forte? Domanda più che legittima, estremamente razionale. La domanda che, sicuramente, si saranno fatti molti investitori prima di sbarazzarsi, ad esempio, di azioni Volkswagen e Siemens in questo inizio di 2018.

Segnali, scommesse, tutto nella «normalità» di un capitalismo in cui conta sempre più il fattore finanziario. Il problema però è sempre lo stesso: una scintilla può incendiare la prateria. Soprattutto quando l’erba e secca.