Una evidente simmetria, rispetto all’esordio di Notturno di Gibilterra, segna il secondo romanzo di Gennaro Serio, Ludmilla e il corvo (l’Orma, pp. 208, € 18.00) che conferma l’originalità inventiva come la fluidità di una scrittura prossima alla pura affabulazione senza patirne, tuttavia, lo smaltimento della vigilanza critica e una troppo pacifica conciliazione con il lettore. Al contrario, Serio la ostacola proprio nel momento in cui sembrerebbe portarla a compimento ed è qui che egli rilancia ex abrupto un congegno narrativo in cui convivono le libertà di un’immaginazione a tutto campo e i vincoli di una costruzione calcolata al millimetro. Come nel romanzo precedente (lì si trattava della ricerca d’un Graal già implicito nel nome, e anzi nume letterario di Enrique Vila-Matas) anche Ludmilla e il corvo è incentrato sulla peripezia, nel qual caso il movimento erratico intorno al nome di Franz Kafka e al destino quasi tutto postumo della sua opera. Di nuovo Serio connette e integra realtà documentale e storia virtuale, a partire da Der Rabe («Il Corvo») titolo che vagheggia un quarto e ultimo romanzo dello stesso Kafka: esso sarebbe nato nell’estremo soggiorno di costui a Berlino, in compagnia di Dora, e dall’incontro nel parco con una bambina disperata, Ludmilla, perché ha smarrito la sua bambola. Commosso, Kafka la consola scrivendole una serie di lettere dove insegue, come in un piccolo romanzo di formazione, la vicenda esistenziale della bambola fino alla comparsa del Corvo (l’insegna che E. A. Poe trasmette ai contemporanei), figura di afflizione e insieme redenzione.

Il movimento erratico di Ludmilla e il corvo muove dalla ricerca affannosa del manoscritto del romanzo il cui archetipo è perduto mentre ne rimane dalle parti di Coimbra una copia tradotta in portoghese. La inseguono in lungo e in largo per l’Europa sia un ricercatore islandese («l’agrimensore», in omaggio al protagonista del Castello) sia una rediviva Ludmilla (ora sé medesima ora invece un doppio della sua stessa bambola) sia specialmente i membri di una setta accademica di ultras kafkiani il cui motto paradossale è «l’opera di Kafka non dovrebbe esistere» e la cui missione è «sottrarre Kafka alla civiltà» per rispettarne il mandato testamentario e così vendicare l’oltraggio dell’amico Max Brod che si rifiutò di distruggerne l’opera residua. Dunque l’agrimensore avrà appena le ceneri di un sogno mentre Ludmilla si inoltrerà nella foresta (foresta di simboli, come vuole Baudelaire) alla ricerca del Corvo salvifico.

La scrittura è affilata, lineare, la frase è costruita sugli elementi attivi del verbo e del sostantivo mentre viene escluso l’avverbio, sinonimo di stasi. Ancora una volta il costrutto narrativo di Serio mobilita, alla stregua di tessere musaiche, una grande quantità di riferimenti moltiplicando i piani narrativi e scomponendo di continuo i cronotopi o cosiddetti, cioè i coaguli spazio-temporali. Ma ancora una volta (e stavolta con ogni evidenza) il decorso narrativo che sembra costruito per simulare un moto centrifugo subisce una inversione e si approssima persino fatalmente a un vuoto, al manque che lo estingue sigillando il percorso. Rispetto all’esordio, in Ludmilla e il corvo a cambiare è semmai il tono con il peso specifico di tutto quanto si depone sulla pagina. In Notturno di Gibilterra, opera prima di un narratore precoce e dotato, sfavillava la agilità, la capacità di veicolare materiali sempre a un passo dal virtuosismo e dalla metafisica postmodernista secondo cui la letteratura nasce per partenogenesi da altra letteratura: in Ludmilla e il corvo esala viceversa un’acre malinconia, il senso di uno scacco e di una perdita che l’evanescente archetipo di Der Rabe non può che rammentare nello stesso momento in cui ci ricorda che non esiste solamente la pagina scritta ma anche il mondo tridimensionale, dopo tutto.