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Lettere da un campo profughi in Bangladesh

Lettere da un campo profughi in BangladeshRohingya affacciati alla baracca del comandante del campo e una delle lettere affidate al fotografo – Stefano Montesi

Migranti Nel 1993 un fotografo entra in uno dei campi in cui si trovano i primi profughi Rohingya. Che a rischio di essere scoperti gli affidano una disperata richiesta di aiuto

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 6 luglio 2015

I bigliettini me li ritrovai in tasca senza neanche accorgermene. Era il 1993 e stavo prendendo un taxi per allontanarmi in fretta dal campo profughi di Shalimar Dhaba, in Bangladesh, quando improvvisamente venni circondato da un nugolo di ragazzini. Nelle orecchie avevo ancora la minaccia che i soldati di guardia al campo mi avevano rivolto poco prima, quando si erano accorti che stavo fotografando in giro senza avere nessun permesso da parte del governo. «Vattene subito altrimenti ti arrestiamo», avevano ordinato. Non me l’ero fatto ripetere. Prima di arrivare alla macchina che mi avrebbe riportato a Cox’s Bazar, però, i bambini si fecero avanti assediandomi. Erano piccoli Rohingya, la minoranza in fuga dalla Birmania che popolava il campo profughi. Ridevano, sembrava stessero giocando, ma allo stesso tempo si facevano sempre più vicini spingendomi e mettendomi le mani addosso. Piccoli gesti rapidi che lì per lì mi lasciarono perplesso. Non riuscivo a comprendere cosa volevano da me. Lo avrei capito poco dopo, una volta in macchina quando, mettendomi le mani in tasca, scoprii una decina di foglietti accartocciati. Erano richieste disperate di aiuto affidate a un fotografo straniero trasformato per l’occasione nella classica bottiglia a cui un naufrago affida le sue speranze. Biglietti scritti a penna in inglese in cui si chiedeva di far conoscere al mondo, e in particolare alle Nazioni unite, le condizioni in cui erano costretti a vivere, le minacce quotidiane del governo del Bangladesh. «Ci espellono in maniera forzata verso la Birmania, e se non obbediamo ai loro ordini ci uccidono sparandoci. Molti di noi sono già morti, e altri sono stati arrestati e spediti in prigione», scrivevano i Rohingya di Shalimar Dhaba.

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Un popolo semisconosciuto
In Bangladesh ero arrivato ai primi di gennaio del 1993. L’occasione per il viaggio era stato il matrimonio di un amico bengalese conosciuto alla Pantanella, l’ex caseificio romano occupato nell’89 dagli immigrati. Ma questo era solo un pretesto, perché in realtà volevo capire chi fossero i Rohingya. La curiosità verso questo popolo allora pressoché sconosciuto mi era venuta grazie a Tiziano Terzani. Il 23 aprile dell’anno prima aveva pubblicato sul Corriere della Sera un lungo e bellissimo articolo intitolato «Quando il paradiso è il Bangladesh» in cui raccontava la fuga dai villaggi della Birmania buddista della minoranza musulmana. «Donne e uomini allampanati, bambini silenziosi, fagotti di vecchi cenci, pentole affumicate. Sono i Rohingya, i musulmani della Birmania, che scappano in Bangladesh in cerca di rifugio», scriveva il grande giornalista.
Ancora oggi i Rohingya sono una minoranza musulmana in un Paese, la Birmania, in cui la maggioranza della popolazione è di fede buddista. Vivono nella regione di Rakhine, nella parte occidentale del paese, e da sempre sono perseguitati dal regime di Rangoon che non li riconosce neanche come propri cittadini attuando verso di loro ogni forma di discriminazione, sia etnica che religiosa. Stupri e uccisioni sono all’ordine del giorno nella vita di quello che l’Onu ha definito un popolo «senza amici e senza terra». Attualmente vivono in Birmania un milione di Rohingya, ma si calcola che almeno altrettanti siano fuggiti nei paesi confinanti. Nei mesi scorsi hanno fatto il giro del mondo le immagini dei barconi colmi di Rohingya abbandonati in mezzo al mare e respinti dai governi di Thailandia, Malesia e Indonesia.
Nel 1993 l’esodo era cominciato da un paio di anni e aveva già portato in Bangladesh più di 230 mila Rohingya.
Il 27 gennaio arrivai a Cox’s Bazar, a poco più di 400 chilometri dalla frontiera con la Birmania. Già allora la città era famosa tra i turisti per le sue spiagge naturali di sabbia, considerate tra le più lunghe al mondo. Il campo di Shalima, meta del viaggio, si trovava in una località chiamata Ukhiya, a 28 chilometri da Cox’s Bazar. La strada per arrivarci passava attraverso boschi fittissimi e costeggiava baracche e mercatini tra i quali le vacche gironzolavano libere mischiandosi a bambini nudi e a vecchi che chiedevano l’elemosina. Man mano che con l’autista ci avvicinavamo a Shalimar cominciarono a spuntare barriere di filo spinato dietro le quali, in lontananza, si vedevano i campi profughi. Ne contai 14, affollati da una «marea» di esseri umani, come la definiva Terzani: «230 mila Rohingya si accalcano in una serie di campi costruiti lungo la strada che da Cox’s Bazar conduce alla cittadina di Taknaaf». Uno di quei campi era Shalimar Dhaba. «E’ il più grande e anche il migliore della zona», mi disse l’autista.
Una moltitudine silenziosa
La cosa che più mi colpì una volta entrati nel campo fu il silenzio. Inaugurato il 13 settembre del 1992, il 18 gennaio 1993, giorno del nostro arrivo, ospitava 8.753 persone, tra le quali si contavano 1.743 famiglie. In quattro mesi – era scritto su una lavagna – si erano registrate 211 nascite e 13 decessi. 1.070 erano invece i profughi rimpatriati in Birmania (242 famiglie). Tutta quella moltitudine sembrava però non avere nessuna voce, visto il silenzio che regnava ovunque. E questo la diceva lunga sulla libertà di cui poteva godere chi era costretto a vivere a Shalimar. L’unico rumore era rappresentato dai passi dei soldati sul brecciolino che ricopriva le strade del campo. Due file di baracche di legno si inseguivano lungo quella principale e sembravano perdersi all’infinito. Va detto che il campo appariva estremamente pulito, il che aumentava ulteriormente il contrasto con tutto ciò che si trovava all’esterno. «Posso scattare delle fotografie?» chiesi a tre uomini, tre Rohingya che ci vennero incontro. «Non ci sono problemi, puoi fare quello che vuoi», fu la risposta. Chiaramente non erano loro a decidere cosa si potesse o non si potesse fare nel campo. Infatti non feci in tempo a prendere la macchina fotografica che subito venni fermato da un soldato e condotto in una baracca di legno, l’ufficio del comandante del campo. Per un po’ restai lì seduto su una sedia in attesa. L’interno era buio. L’unica finestra della baracca era chiusa ma dagli spazi vuoti che separavano tra loro le travi filtrava la luce esterna. Anche quella, però, dopo un po’ prima si affievolì e alla fine sparì quasi del tutto. Mi accorsi allora che negli spazi tra le tavole erano spuntati tanti occhi che mi guardavano, uno dopo l’altro tutto intorno alla baracca. Erano i Rohingya che, incuriositi, erano venuti a vedere lo straniero arrivato nel campo.
Dopo un po’ che ero seduto, il soldato che mi sorvegliava si decise ad aprire la finestra e allora quegli occhi diventarono volti di persone, bambini e uomini che si affacciarono per guardarmi. L’effetto fu strano: era come guardare un quadro la cui cornice era quell’unica finestra. Non resistetti, presi la macchina fotografica e cominciai a scattare. Una delle fotografie che feci è quella che illustra questo racconto.
Quanto accadde dopo è una via di mezzo tra dramma e comicità. Il comandante del campo pretese che gli consegnassi le fotografie scattate. Gli misi in mano un rullino vergine preso dalla scorta che tenevo nello zaino, lui lo aprì e guardandolo controluce disse contrariato: «Ma qui non vedo nessuna fotografia, dove sono?». «Guardi che deve farlo sviluppare» risposi. Mi interrogarono per tre ore prima di convincersi a lasciarmi andare. Tre ore durante le quali, capii più tardi, i Rohingya si organizzarono per far arrivare all’esterno del campo la loro richiesta di aiuto. Quando finalmente uscii dalla baracca del comandante, le lettere erano pronte e i bambini istruiti su cosa fare. Oggi so che rischiarono parecchio per farmi avere quei messaggi, e posso solo immaginare cosa sarebbe accaduto loro se li avessero scoperti. «Noi non vogliamo tornare in Birmania», era scritto su quei biglietti. E ancora: «Il potere del governo di Myanmar deve essere trasferito ai membri eletti della N.L.D. (la National League for Democracy, il partito guidato dalla premio Nobel Aung San Suu Kyi. La stessa Lady è stata criticata a maggio dal Dalai Lama per il suo silenzio sulla tragedia Rohingya, ndr). Ma soprattutto: «Vogliamo personale delle nazioni unite nei nostri campi».
Tornato in Italia portai questi biglietti alle redazioni di alcuni giornali, senza però ottenere grande attenzione. Nel suo reportage Terzani invitava la comunità internazionale a farsi carico di questo popolo abbandonato a se stesso, pur capendo che questa non sarebbe stata in grado di imporre niente al governo di Rangoon. Ventidue anni dopo la situazione non è cambiata e oggi i Rohingya continuano a essere perseguitati e a fuggire.

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