Una lettera aperta a Vladimir Putin per riabilitare il guru della marcia, radiato a vita dallo sport per le sostanze dopanti somministrate ai suoi atleti. Con la bufera del doping di Stato che incendia ancora una volta il controverso rapporto tra la Russia e il resto delle federazioni occidentali dopo il recente scandalo Meldonium, il farmaco proibito che ha messo nei guai la superstar del tennis Maria Sharapova e altri campioni che difficilmente sfileranno nella cerimonia d’apertura dei Giochi olimpici di Rio de Janeiro, tra pochi mesi.

Quattro atleti russi – ancora anonimi ma che pare siano saliti sul podio almeno una volta ai Giochi olimpici, due dei quali sono stati privati degli allori perché risultati positivi a controlli antidoping – hanno chiesto al presidente della Federazione Russa di riabilitare il nome, la reputazione di Viktor Chegin, il plenipotenziario dell’atletica russa, il nemico numero uno al momento della Wada, agenzia mondiale antidoping e dell’agenzia antidoping russa (Rusada), radiato per la somministrazione di sostanza proibite ai suoi atleti. In particolare, Chegin oltre a essere uno degli allenatori più vincenti nella storia recente dell’atletica leggera, sarebbe la mente del centro tecnico di Saransk, la casa del doping finanziata dallo Stato e completamente messa nelle sue mani (porta il suo nome) che avrebbe prodotto la benzina truccata per i successi – tanti – degli atleti da lui seguiti nell’atletica leggera.

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E per questo motivo da tempo erano sulle sue tracce sia la federazione internazionale di atletica leggera, la Iaaf, che la Wada. I suoi ragazzi hanno portato a casa tre ori nelle ultime tre 50 km di marcia alle Olimpiadi. Ma negli ultimi anni proprio i marciatori russi sono risultati positivi ai test antidoping, con Tas e Iaaf che qualche giorno fa sfilavano la medaglia della 50 km di marcia con record olimpico a Sergei Kirdyapkin, squalificato per doping, tre anni e tre mesi, nel gennaio dell’anno scorso.

E lo stesso provvedimento è stao preso per Yuliya Zaripova, che ha perduto la medaglia d’oro nei tremila siepi vinta a Londra 2012 e il titolo mondiale sulla stessa distanza dell’anno precedente e per Olga Kaniskina, argento nella 20 km sempre ai Giochi londinesi. La squalifica a vita per il direttore del centro tecnico russo era quindi attesa, senza dimenticare che il 15 luglio 2015 sei atleti seguiti da Chegin risultavano positivi all’Epo, 31 in totale sino a quel momento.

Chegin si dimetteva il giorno successivo dalla guida del centro di Saransk e la federazione russa, per ridimensionare il caso divenuto mediatico, vietava agli atleti di continuare a lavorare con lui, con marciatori non iscritti alle gare internazionali – Mondiali di Pechino inclusi – sino al termine di un’indagine interna. E ora siamo al bando a vita per Chegin, secondo gli olimpionici «un gran professionista e un vero patriota della Grande Russia» con la squalifica imposta da Wada e Rusada che sarebbe arrivata a causa delle pressioni politiche dell’Occidente.

Insomma, una parte dello sport russo alza un muro, fa capire di sentirsi vittima di una congiura, di un sistema che avrebbe colpito in particolare l’atletica della Federazione, a pochi mesi dalle Olimpiadi di Rio de Janeiro. E cerca sponda in Putin, che aveva agitato l’esistenza di una spectre occidentale ai danni dello sport russo, idea sostenuta anche da campionesse come Elena Isinbayeva (salto in alto, titoli olimpici e mondiali) dopo la richiesta della restituzione delle medaglie mondiali e olimpiche vinte dagli atleti della Federazione negli ultimi sette anni da parte di varie federazioni. Insomma, una sceneggiatura che si ripete, un remake dell’Occidente contro Unione Sovietica dei primi anni Ottanta, nell’era dei boicottaggi. Nonostante questo gli atleti russi saranno a Rio, l’atletica sarà decimata ma presente, gli sponsor pagano tanto e subito e attendono cascate di dollari dalle Olimpiadi brasiliane.