Enrico Letta riesce nell’equilibrismo di dire no all’aut aut di Calenda (per il leader di Azione il Pd «deve scegliere tra noi e i 5 stelle») senza rinunciare a un campo largo di alleanze che si costruirà «sulle cose da fare e non sui veti». Alla direzione di ieri, segnata dai venti di guerra, il leader Pd ha riproposto l’idea di uno scontro bipolare destra-sinistra alle prossime politiche. E il progetto di un fronte di forze «progressiste, democratiche ed ecologiste» da contrapporre a Salvini e Meloni. «Il rapporto politico col M5S dura e durerà, le esperienze di governo insieme in tempi difficili sono state un cemento», mette subito in chiaro. Convinto che saranno i centristi, alla fine, a dover scegliere.

IL PRESSING CHE ARRIVA da varie parti (da Orfini a Base riformista) per il proporzionale non lo spaventa più di tanto: «Se ci saranno le condizioni ci siederemo al tavolo per cambiare il Rosatellum che è la peggiore legge di sempre», spiega, senza sperare più di tanto che sia possibile. E in ogni caso la linea è quella di un Pd che ha «l’ambizione di vincere», non «l’istinto di sopravvivere». «Se sarò io a fare le liste metterò in campo chi ha gli occhi di tigre», dice citando una famosa battuta di Rocki III, «chi vuole pareggiare è meglio che stia per un giro in panchina».

Non è solo il solito sprone di un «allenatore» che vuole giocarsi al meglio la partita. Ma anche un’idea di come affrontare le elezioni. Con «uno spirito bipolare che deve restare con qualsiasi legge elettorale», spiegano al Nazareno. «La prospettiva neocentrista non è la nostra», precisa il vicesegretario Peppe Provenzano. «L’inseguimento al centro, di un presunto moderatismo che finiva per rappresentare la conservazione dello status quo, è stato tra le ragioni della nostra sconfitta storica». «Essere il partito della responsabilità – insiste il numero 2- non basta a rappresentare una società che ribolle, a rispondere alla sofferenza sociale: dobbiamo diventare il partito del cambiamento, nel segno della giustizia sociale e ambientale».

UNA LINEA PIÙ DI SINISTRA, che Letta sintetizza dicendo che «la lotta alla disuguaglianze sarà il vero asse portante della nostra azione politica». «Non c’è vera libertà senza uguaglianza», il messaggio che rivolge a una platea dove covano sogni di larghe intese anche dopo il 2023, dove l’idea di dialogare con Renzi, Fi e pezzi della Lega ancora non è sopita. «La destra non va educata, va battuta», taglia corto Provenzano. «Dalla pandemia si esce da sinistra, con una stagione di diritti e maggiore equità», gli fa eco Francesco Boccia.

Letta cita il salario minimo, la legge sulla cittadinanza, il ddl Zan: tutti temi che saranno al centro della campagna elettorale. Dopo essere stati elaborati e rifiniti durante l’estate nei «Sassoli camp», la formula ideata in omaggio allo scomparso presidente del parlamento Ue: dieci campi in tutta Italia con mille persone l’uno dove «scremare le proposte uscite dalle agorà» in vista del programma elettorale.

È UN LETTA CHE GUARDA alle urne, consapevole che i continui strappi della Lega potrebbero avvicinare il voto già in autunno. A Calenda non chiude le porte, ma l’ultimatum del leader di Azione non trova consensi in casa Pd. Nessuno, neppure gli ex renziani, lo insegue sulla strada di un divorzio col M5S. E del resto il suo endorsment al candidato del centrodestra Marco Bucci a Genova è giù un caso. «Ma come? Aveva appena detto che non vuole allearsi con Meloni. Incomprensibile», taglia corto Boccia.

LA DIREZIONE SI CHIUDE con un voto unanime, pratica assai diffusa tra i dem e spesso poco sincera. Ma stavolta anche Franceschini, nei giorni del Quirinale molto distante da Letta, sente il bisogno di dire che «Enrico avrà alle spalle un partito unito». «Vinceremo se ogni pezzo del Pd capirà che un passetto indietro dei vari “io” ci renderà più convincenti davanti al paese, il nostro messaggio sarà lineare e non sporcato dalle polemiche interne», il pensiero del segretario.

Dietro i modi felpati la sua è una linea di annessione graduale: «Chi ha fatto bene il suo lavoro è stato valorizzato, a prescindere dalle aree di provenienza». E giù lodi alle due capogruppo Serracchiani e Malpezzi, che pure vengono dalle fila renziane. Il banco di prova prima delle politiche saranno le comunali di primavera e le regionali d’autunno in Sicilia. Di qui la scelta di tenere la festa nazionale dell’Unità a Palermo.