C’è un ragionamento che in questi giorni barricaderi, anche nei confronti dell’amico Mario Draghi, Enrico Letta sta facendo con i suoi più stretto collaboratori. E cioè che alle elezioni «ci andremo a testa alta e con la schiena dritta».

Significa che il leader del Pd intende presentarsi alle politiche cambiando il volto del partito in modo radicale rispetto ai tempi del renzismo: più deciso, più battagliero, più di sinistra. Sia sui diritti (ius soli, omofobia, immigrati), sia sulle politiche sociali, vedi la dote da 10mila euro per i diciottenni da finanziare con una tassa al 20% sulle successioni sopra i 5 milioni.

Insomma, se anche le cose alle urne andassero male (cosa che Letta con tutta sincerità non dà affatto per scontata) lui non intende avere rimpianti, pensare di non aver osato abbastanza, tarlo che gli è rimasto dalla sua precedente vita politica terminata nel 2014. E questo accadrà anche a costo di irritare Mario Draghi, cui il sostegno nei fatti non mancherà, ma nel dibattito pubblico il Pd di Letta non vuole apparire appiattito sul governo.

L’ESEMPIO PIÙ RECENTE di questo genere Letta lo ricorda bene: era il vice di Bersani tra il 2011 e il 2013, quando i cosiddetti riformisti del Pd (la destra interna) ogni giorno misuravano al segretario «il tasso di montismo» che non era mai sufficiente.

Risultato? Il M5S al 25% perché in grado di interpretare la rabbia dei ceti più deboli dopo due annidi lacrime e sangue. E di scarsa o assente redistribuzione. E di inesistente sostegno alle famiglie più giovani. Mentre i più ricchi diventavano sempre più ricchi.

ECCO, «IL REPLAY DI QUESTO FILM non lo vedremo», assicura Letta ai suoi. Spiegando non solo che non mollerà sulla dote ai diciottenni (non tutti, la metà, quelli di famiglie meno abbienti), ma che insisterà con proposte di questo tipo. Su cui ha ottenuto sostegno da quasi tutto il Pd, compreso il sindaco renziano Dario Nardella, Matteo Orfini e Matteo Orfini.

Persino la capogruppo in Senato Simona Malpezzi si smarca dal suo predecessore e compagno di corrente Marcucci (che aveva condiviso lo stop di Draghi) e parla di «proposta giusta». Così anche il coordinatore di Base riformista Alessandro Alfieri: «Sacrosanta nel merito». «L’indignazione è fuori luogo. Servirebbe aprire un dibattito serio sulla riduzione delle disuguaglianze sempre più evidenti», dice Malpezzi, convinta che la dote vada discussa «nel quadro di una più ampia riforma fiscale».

E se il M5s tace e non lo appoggia (ieri persino il gauchista Fico ha dribblato la domanda), tanto meglio per i dem. E se la destra insorge insieme a Italia Viva ancora meglio. «Salvini e Meloni hanno rivelato la vera essenza della destra: la difesa dei privilegi, non del popolo», spiega il vicesegretario Giuseppe Provenzano in un’intervista.

Letta insiste via Twitter: «Mi si chiede perché non finanziare la #dote18 coi tanti soldi che abbiamo ora. Perché ora finanziamo soprattutto a debito che domani pagheranno i giovani di oggi. Assurdo. Meglio la tassa di successione sui patrimoni alti».

CON DRAGHI UN PRIMO chiarimento c’è stato. Nei prossimi giorni si incontreranno faccia a faccia. Il leader Pd ha incassato quel «ne parleremo» come una porta semi aperta, quando si entrerà nel vivo della riforma fiscale. «Chi è sicuro della propria identità non ha paura di essere etichettato come più o meno governista», il ragionamento di Letta, che affronta il rischio di apparire al premier, al Quirinale e al gotha europeo meno disciplinato e composto di quanto immaginassero.

SE ARRIVERANNO ALTRE scomuniche dall’establishment, meglio. Sarà un modo per dimostrare che il Pd «non è il partito delle ztl». Nei confronti dei commentatori e dei poteri forti la sfida è aperta: «Siamo alla lotta di classe al contrario, l’élite più conformista e meno cosmopolita al mondo raccolta intorno al povero ereditiere milionario», commentano nel giro stretto del segretario. «Sono gli stessi che da anni danno lezioni alla sinistra, pretendendo che faccia la destra…».

Letta si concede anche una battuta: «Il nostro è davvero un paese dal cuore d’oro. Vedo solidarietà diffuse per quell’1% più ricco per evitare che si trovi a pagare la tassa di successione, come succede invece negli Usa, in Francia e nel regno Unito».

Un paradosso, per un ex ragazzo accusato per anni di essere un rampollo dell’establishment, un predestinato. Troppo colto però per non capire che «solo in Italia una proposta del genere può passare come eretica». Forse perché, ragionano al Nazareno, «solo in Italia si pretende ancora che un partito di sinistra applichi le vecchie ricette fallite del blairismo anni 90».