Enrico Letta insiste con la sua singolare priorità in tema di riforme istituzionali. «La prima riforma da fare è quella dei regolamenti parlamentari. I cambi casacca, il gruppo misto non sono capiti all’estero», ha detto ieri rispondendo alle domande dei corrispondenti stranieri. «Si usi l’esperienza degli altri – ha aggiunto – in tanti paesi non esiste il gruppo misto e nel parlamento europeo è po’ così, ha un ruolo minimo». L’affermazione è solo in parte corretta. Il gruppo dei parlamentari non iscritti ad altri gruppi è previsto nel parlamento Ue (attualmente sono in 29) e anche alla House of commons a Londra. C’è all’Assemblée nationale a Parigi (attualmente sono in 19) e al Congreso di Madrid. È vero che negli altri parlamenti questi deputati hanno un peso, numerico e politico, minore. Ma questo, prima ancora di ogni considerazione sul pluralismo politico italiano e sui limiti dei nostri partiti – ci sono da noi parlamentari iscritti al misto perché espulsi dai loro gruppi – dipende da un’elementare differenza nei regolamenti: altrove è assai più facile costituire un gruppo autonomo. Per cui non ha tanto senso indicare l’esempio virtuoso del parlamento inglese, dove ci sono sette gruppi composti da meno di dieci parlamentari, della camera bassa francese che ha circa le dimensioni di quella italiana ma vede quattro gruppi con meno di venti membri, o della camera spagnola dove i gruppi grandi sono quatto ma sei sono quelli piccoli e piccolissimi (da cinque a tredici componenti).

Niente del genere è possibile in Italia, dove servono almeno venti deputati. Ed è soprattutto per questo che si gonfia il gruppo misto. Un «limbo» che – in questo Letta ha ragione – offre anche delle attrattive ai deputati ai quali viene restituita la metà della loro quota di finanziamento pubblico prevista per il gruppo (possono pagarci i collaboratori personali). E poi c’è la scorciatoia delle «componenti», sotto gruppi del gruppo misto, autorizzate anche se composte da appena tre deputati. Quando la componente raggiunge i dieci iscritti (l’ultimo caso è quello degli ex grillini espulsi per aver votato contro Draghi) partecipa anche alla conferenza dei capigruppo che stabilisce il calendario dei lavori.

La proposta di modifica al regolamento che Letta – «nel rispetto del non vincolo di mandato» – si prepara a presentare ai presidenti di senato e camera arriverà però in un momento particolare. Perché a distanza di sei mesi dall’approvazione definitiva del taglio dei parlamentari, le camere stanno finalmente cominciando a occuparsi sul serio di quella modifica dei regolamenti che è indispensabile per far partire i lavori della prossima legislatura. I deputati, infatti, da 630 scenderanno a 400 e i senatori elettivi da 315 a 200. Riduzione che renderà impraticabili tutti i quorum stabiliti nei regolamenti in una quota fissa, a cominciare dal numero minimo di venti deputati per costituire un gruppo. Che si cambi o meno la legge elettorale, non saranno pochi i partiti che non raggiungeranno quella soglia di eletti e il risultato sarà che i loro rappresentanti non potranno che iscriversi… al gruppo misto. Conviene dunque che Letta si impegni perché il Pd favorisca una veloce messa in sicurezza dei numeri nei regolamenti parlamentari, prima di immaginare ulteriori modifiche. Non che manchino aspetti da aggiornare nel regolamento della camera, e i 5 Stelle nell’ultima riunione della giunta per il regolamento hanno provato ad allargare il campo a quelle modifiche che quattro anni fa si rifiutarono di far passare, ma il tempo ormai non è più tantissimo. E come dice il deputato di Forza Italia Simone Baldelli, che è tra i relatori che presenteranno entro maggio la proposta di adeguamento del regolamento, «l’urgenza è mettere il parlamento in grado di funzionare, solo una volta portate a casa le piccole ma indispensabili modifiche potremmo pensare ad altro».