Nel 1933, all’età di ventidue anni, Cioran pubblica un folgorante intervento, che ha un titolo sintomatico per chi abbia qualche dimestichezza con la sua opera: L’uomo senza destino. Si tratta di un’invettiva implacabile contro «(c)oloro che si rinnovano continuamente, liquidando a ogni istante argomenti di riflessione e forme di sensibilità, perché nessuna è centrale in loro»: insomma contro coloro che, non avendo un destino, sono condannati a una vita inconsistente. Benché il discorso abbia il tono metafisico tipico di Cioran e non si menzioni espressamente nessuno, egli ha in mente un preciso obiettivo polemico: Mircea Eliade, conosciuto l’inverno dell’anno prima a Bucarest in occasione di una conferenza. Eliade ha soltanto quattro anni più di Cioran, ma può già vantare una ricca e multiforme produzione saggistica, e un curriculum invidiabile (nel ’33 avrebbe discusso la sua fondamentale tesi di dottorato sullo Yoga, frutto di un soggiorno triennale in India), che fanno di lui una delle voci più significative della nuova generazione rumena. Dietro il duro attacco sferrato a Eliade come uomo senza destino, non ci sono soltanto ragioni personali (Cioran voleva vendicare una ragazza rumena abbandonata da Eliade dopo una relazione), ma anche una profonda diversità di vocazione precocemente avvertita.
Cioran avrebbe votato la sua vita e la sua opera a un’unica ossessione, mentre Eliade manifestava già allora un fecondo eclettismo che lo porterà a oscillare tra la saggistica e la narrativa, la scrittura teatrale e l’erudizione accademica; Cioran predilige il frammento, Eliade scriverà ampi trattati di storia delle religioni di impianto sistematico; l’idolo di Cioran era Pascal, Eliade stravedeva per Balzac… Per usare due categorie rese celebri da Isaiah Berlin, potremmo definire Cioran un riccio, sempre inchiodato al medesimo rovello metafisico, ed Eliade una volpe, per la grande versatilità di temi e generi coltivati. Eppure questa radicale divergenza d’indole non ha impedito che tra i due si sviluppasse una lunga amicizia, testimoniata dal carteggio pubblicato ora da Adelphi con il titolo Una segreta complicità Lettere 1933-1983 («La collana de casi», pp. 299, € 22,00), per l’attenta cura di Massimo Carloni e Horia Corneliu Cicortas, che hanno opportunamente arricchito il volume con scritti perlopiù inediti di Eliade su Cioran, e di Cioran su Eliade.
L’esilio dalla patria comune di origine, oggetto al tempo stesso di odio e di rimpianto, è uno dei temi ricorrenti: Cioran abbandona la Romania nel 1937 per stabilirsi a Parigi, dove rimarrà per tutto il resto della vita; quanto a Eliade, nei primi anni quaranta si trasferisce prima a Londra e poi a Lisbona, e quindi, dal ’45, a Parigi, dove ritroverà anche l’altro grande esule connazionale, Ionesco (evocato spesso nel carteggio). Dalla metà degli anni cinquanta, però, Cioran e Eliade dovranno nuovamente dividersi, dato che il secondo lascia l’Europa su invito dell’Università di Chicago che gli affiderà la cattedra di Storia delle religioni. La carriera universitaria di Eliade arriva così a una svolta decisiva che gli consentirà di imporsi, seppure non senza qualche controversia, come uno dei più autorevoli storici delle religioni a livello mondiale. Dall’altro lato dell’Atlantico, invece, Cioran continuerà a fare una vita da eterno studente, raggiungendo la fama solo tardivamente (i suoi libri uscivano sì per Gallimard ma avevano una circolazione piuttosto limitata), tanto che Eliade si prodiga per fargli avere una borsa di studio e gli versa assegni di tasca propria.
Tuttavia, dal cinquantennale scambio di lettere a emergere come figura dominante è inaspettatamente Cioran, e non il più affermato Eliade, il quale sembra farsi volentieri contagiare dalla tensione tragicamente scettica dell’amico. Tra i tanti esempi, vale la pena citarne uno tratto delle ultime lettere, in cui Eliade, affetto da vari problemi di salute (sono queste le «prove» cui allude) confessa di essere tentato dal nichilismo cioraniano: «Le cose sarebbero più semplici se, a differenza tua, dotato come sei dalle buone fate (abbondantemente!) di tante virtù utilissime ai giorni nostri – scetticismo, pessimismo, ecc. –, non credessi ancora al valore di queste “prove”, cioè se non fossi convinto del loro significato iniziatico! Cosa vuoi, l’India e la storia delle religioni hanno segnato la mia vita! Cosa non darei per avere la tua certezza che la vita non ha alcun senso, e che la Creazione è stata un errore e, per nostra stoltezza, un castigo!». Da parte sua, Cioran, nonostante le differenze di prospettiva mai dissimulate, continua a leggere le opere di Eliade con attenzione, temperando, se non ribaltando, il giudizio di radicale dissenso espresso nell’Uomo senza destino, e consacrando a Mircea uno dei suoi più intensi Exercices d’admiration. E quando questi gli confessa di scrivere con difficoltà a causa di un problema di artrite, Cioran lo consola con parole amabili, che sono anche un tributo affettuoso a una personalità che egli considera tanto lontana da lui, quanto, per altri versi, insostituibile: «ti sei adoperato a mobilitare tutte le tue forze e i tuoi talenti, a non lasciare nulla d’intentato o semplicemente allo stato di progetto; da qui la varietà della tua opera, che riflette necessariamente i tuoi molteplici aspetti. Adesso puoi gettare uno sguardo indietro senza rimpianti o amarezze di sorta».