Ci sono prime esecuzioni assolute per le quali si può non nutrire il rammarico di non essere stati partecipi. Una di queste ebbe luogo ottant’anni fa, il 15 gennaio 1941, nel campo di prigionia slesiano di Görlitz, temperatura stimata fra i 15 e il 10 gradi centrigradi sotto zero: si eseguiva il Quatuor pour la fin du temps per violino, violoncello, clarinetto e pianoforte, che Olivier Messiaen aveva composto durante la prigionia. Il commento più significativo alla ricezione di quel concerto viene dallo stesso autore, secondo il quale l’opera non fu mai più ascoltata con pari rapita attenzione. Per rapimento si intende immersione liturgica nell’evento.

IN QUEL GELIDO pomeriggio, quattrocento persone, fra prigionieri e soldati nazisti, assistettero a una sacra rappresentazione: non una Passione, tuttavia, non del martire coi suoi rassegnati dolori, bensì del santo già glorificato, del vincitore investito dalla Luce trasfigurante del divino, perché il soggetto è il più spettacolare, l’Apocalisse, ovvero la Rivelazione di Giovanni.
Preme un rovesciamento della visione, che non ultimo ci salvaguarda dalla retorica del dolore, del lutto, della pietà postuma, della commemorazione in pantofole e poltrona. Non è più, infatti, semplicemente un concerto racchiuso in una gelida caserma.
La caserma, quale espressione del tempo della Storia, è invece catturata e riassorbita dall’attimo senza tempo eliotiano del Quatuor. Guido Barbieri scrive che la musica in quell’ora si fece «epifania di eternità che il mistero di Dio contiene.»

AL CENTRO della sacra rappresentazione non è la promessa di un riscatto in un tempo imprecisato e futuribile. È viceversa la Vittoria presente. La caserma è il luogo del Giudizio, dove sono già stati vagliati i vivi e i morti nello spirito. È difficile, oggi, provare a rivivere quell’evento come una sorta di oratorio sacro. Guido Barbieri lo ha fatto senza che la contemplazione del lutto finisse per tradire la tragedia, come a più riprese aveva paventato Jacques Derrida.
Il 26 gennaio, per gli appuntamenti in streaming dell’Accademia Filarmonica Romana, andrà in scena, nello spazio acustico e privo di pubblico della sala Casella, Il tempo della fine: quattro vite nell’apocalisse di Görlitz, una interpretazione del Quatuor con Marco Rizzi al violino, Mario Brunello al violoncello, Gabriele Mirabassi al clarinetto e Andrea Lucchesini al pianoforte.
La voce di Barbieri scandirà la successione degli otto movimenti di Messiaen attraverso il racconto della storia di un’opera pensata «per quattro strumenti che mai prima si erano incontrati e che mai più, o quasi, avrebbero suonato insieme». Lungo il suo testo si susseguono, come sciabolate di luce, frammenti di esistenze: quelle dello stesso Messiaen, di Jean Le Boulaire, di Étienne Pasquier, di Henri Akoka, i quattro interpreti originari del Quatuor.
Nella delicata sostanza del tessuto narrativo prende rilievo piano piano il singolare incrocio di quei destini. Secondo questa modalità, la sacra rappresentazione riassume forma. Attraverso la voce narrante, a lato dei protagonisti, emerge anche il carceriere pietoso: si chiamava Karl-Albert Brüll, era di stanza allo Stalag VIII-A, era appassionato di musica e non tergiversò a rifornire di carta pentagrammata e matita il trentatreenne compositore francese.

TRENTATRÉ ANNI: come il Messia. Curiosi questi scherzi della sorte e dell’onomastica. Nel testo di Barbieri, concordemente al topos del Trionfo escatologico, Messiaen appare forte e sicuro, anche quando è di fronte ai medici e alle guardie di campo, lo sguardo perso nel vuoto per l’accentuata miopia: «Stringe al petto una borsa dove ha soltanto la musica che era riuscito a portare con sé: un fascio di partiture di Bach, Berg, Debussy, Stravinsky. Un soldato tedesco cerca di strappargliela via, ma Olivier reagisce con rabbia e riesce a tenere la borsa stretta al corpo. Nudo.»

Allo stesso modo, quando uno dei tre compagni organizza la fuga e lo invita a seguirlo, Messiaen risponde di no, perché è Dio che l’ha voluto lì, in quel tempo e in quel luogo. Görlitz è la terra desolata. L’etimo la vuole dallo slavo, col significato di «terra bruciata». Le genti del posto ardevano il suolo per restituirlo ricco e ferace. Del resto, si sa, come nell’aprile di Eliot, la terra morta genera precipuamente fiori. Bisognava bruciare i tempi di marcia per sollevarsi dai dolori del mondo, secondo il Libro della Rivelazione di Giovanni, che è un libro di Speranza e non di catastrofe. Era necessario polverizzare i ritmi ossessivi di cavalleria pesante della musica con il canto libero e senza metro degli uccelli, che Messiaen, da esperto ornitologo, amava e studiava ancor prima di trasferirli nel suo celeberrimo Quatuor.