Nel recente Una politica estera per la sinistra (Raffaele Cortina, pp. 210, euro 20) il filosofo statunitense Michael Walzer raccoglie alcuni saggi, apparsi prevalentemente sulla rivista statunitense Dissent tra il 2002 e il 2015, riprendendo le fila del suo «discorso morale» sulla guerra. L’impianto concettuale delle riflessioni proposte, a dispetto dell’evoluzione del quadro politico internazionale, non presenta significative novità rispetto alle precedenti opere e, in particolare, rispetto al più noto Just and Unjust Wars, edito nel 1977.
Sulla base di meri presupposti morali, anche questa volta non chiaramente articolati, la dottrina della «guerra giusta» viene ad attagliarsi sempre a un amplissimo spettro di fattispecie belliche.

IL RICHIAMO alla guerra etica – osservava qualche anno fa De Fiores – «costituisce parte integrante di quella cultura giuridica e politica su cui si è storicamente fondato il diritto imperiale occidentale» (1999). Tale vocazione ha tuttavia contrassegnato, in modo specifico, la storia degli Stati Uniti ove ha assunto i connotati di una vera e propria ideologia di Stato. Un’ideologia «imperiale» cui non si sottrae Walzer. Dall’antichità in avanti, del resto, la storia è lastricata di giustificazioni morali della guerra: il diritto naturale, la cristianità, la missione civilizzatrice, i diritti umani, la democrazia, etc. Non deve, quindi, sorprendere l’assoluta estraneità di siffatte teorizzazioni a ogni argomentazione giuridica.
Il nuovo diritto internazionale, nato con la Carta delle Nazioni Unite, ha sancito un divieto generale dell’uso della forza armata, esteso anche alla sua minaccia. La speciosa denuncia dell’inadeguatezza dell’Onu e l’irrisione delle sue funzioni – «portare una crisi all’attenzione delle Nazioni Unite è un modo per fingere di agire mentre si chiudono gli occhi e ci si gira dall’altra parte» – altra costante delle riflessioni di Walzer, è quindi parte di una più ampia teoria con la quale, per dirla con Ferrajoli, viene avallata la «regressione alle forme pre-giuridiche delle vecchie relazioni tra Stati fondate sulla legge del più forte» (1999).

LA LINEA ARGOMENTATIVA centrale del libro postula l’esistenza di una «posizione standard» di sinistra, buona in ogni ambito delle relazioni internazionali, ispirata all’antimperialismo e all’antimilitarismo. Benché la sinistra si professi internazionalista non avrebbe cioè grande dimestichezza con la politica estera e con le politiche di sicurezza. È tuttavia il corredo di esempi storici riportati a rendere particolarmente perniciosa questa tesi: una buona politica estera all’epoca del Vietnam avrebbe richiesto infatti l’opposizione «alla guerra americana così come al probabile vincitore vietnamita», quella in Afghanistan nel 2001 fu invece «un’altra guerra giusta» la cui conduzione – aggiunge – lasciò a desiderare, mentre quella in Kosovo oltre a essere «giusta» era anche una «guerra di sinistra moderata».

LA CRITICA DI SINISTRA alla politica americana, a causa degli «effetti duraturi della teoria marxista dell’imperialismo e delle dottrine terzomondiste», è stata invece «stupida, esagerata, estremamente imprecisa» tanto da non riconoscere il potere della religione nella modernità e condannare i crimini islamisti. Walzer invita quindi a rompere con quel «marxismo raffazzonato su cui così tanti si basano oggi a sinistra».
Difficile non scorgere in questo coacervo di idealismo morale e americanismo, l’ideologia dominante oggi nella sinistra occidentale sulle questioni di politica estera. Vivo e operante, nella stessa opinione pubblica italiana, è del resto il convincimento dell’uso della forza in spregio alla Carta Onu: un diritto in ultima analisi progressista (!) quello della guerra per un ordine politico «giusto», come si è assistito da ultimo in Libia e Siria. Quando cioè uno stuolo di opinionisti si è mobilitato per glorificare marchiane violazioni del diritto internazionale da parte di potenze straniere.