Pendevamo, ancora ragazzini, dalle battute colorite che i giovinastri si scambiavano per il gusto di sbeffeggiarsi. Battute mutuate dei film che uscivano al cinema a getto industriale. Nel pronunciare i nomi degli attori americani, ma pure di cantanti e di sportivi, s’incorreva puntualmente nella loro storpiatura. Sentivamo dire a esempio, tutto d’un fiato, Marlobrandon invece di Marlon Brando; Polanca, al posto di Paul Anka. Per chi attingeva a un vocabolario elementare, fu cosa da niente far entrare nelle orecchie la parola Pelé. Facile da pronunciare e da ricordare, oltreché buffa, si riferiva a un giocatore giovanissimo e già importante. Ne sentivamo parlare con grande meraviglia per ciò che aveva fatto. E subito con quel nome in bocca, senza che capissimo che cosa aveva fatto.

Quegli stessi giovinastri ne enfatizzarono le giocate virtuose al mondiale di Svezia 1958. Avevamo scoperto, attraverso le figurine da incollare nell’album, che oltre alla Serie A esisteva un campionato del mondo nel quale il giocatore brasiliano chiamato Pelé era balzato sulla scena dei calciatori delle nazionali più forti. Che erano sedici al mondiale, la crema del calcio che si giocava in Europa e in sud America. Il centravanti francese Juste Fontaine aveva segnato la bellezza di 13 reti. Ma soltanto di Pelé, delle sue finte e acrobazie nell’andare in gol, si raccontava e si discuteva: nelle due partite culminanti per il titolo, semifinale e finale vinte contro Francia e Svezia, aveva realizzato la metà dei 10 gol del Brasile. Nessuno meglio di lui, a soli diciassette anni, né prima né dopo. La pronuncia d’infilata del trio d’attacco verdeoro Didì-Vavà-Pelé, con quei nomignoli che sembravano usciti dalle pagine allegre del «Corriere dei piccoli», diventò la colonna sonora della nostra fanciullezza.

Erano rari i filmati in circolazione con Pelé in azione. Più che la figura del giocatore, se ne idealizzò il nome nel nostro immaginario e in quello della gente. Ottant’anni – l’età di Pelé oggi – a rifletterci sarebbero pochi. Ma al contempo sono molti, lontani. Il mito-Pelé, globale, si è originato in un’epoca nella quale un potente mezzo della comunicazione come la televisione aveva fatto timido capolino proprio in Svezia riprendendo per la prima volta stralci delle partite di un mondiale: un tempo antidiluviano, ormai quello. Se guardiamo, nel presente, al ruolo assoluto che assume il mezzo delle immagini intorno a tutto ciò che si muove nel mondo del calcio (non solo sui campi di gioco) e ai rivolgimenti che ha comportato, allora l’età di Pelé, intesa come epoca, ci appare remota, i suoi anni anagrafici (del giocatore) addirittura raddoppiati. E tuttavia, quasi che nessun cambiamento fosse avvenuto, quel nome leggero pronunciato in un’unica sillaba seguita inalterabile a librarsi nel tempo, senza tempo.