L’infinita riapertura di un’inchiesta. Così appare la retrospettiva beatlesiana, inesauribile perlustrazione d’archivio che mescola feticismo e nostalgia tra riassemblaggi, cut-up e détournement situazionisti. Let It Be è l’ultimo dei «50th Anniversary»”. Cinquanta più uno, causa covid. Anche la sua prima uscita era slittata di un anno rendendolo un testamento apocrifo: l’addio dei Beatles, sublime, era già stato proclamato con Abbey Road. Ed era già partito il processo interno al tormentato album-film Get Back (poi Let It Be), con i filologi del rock chiamati in causa per la prima volta. Qual era l’originale? Il disco «as nature intended» rattoppato da Glyn Johns a partire da quelle sessioni nude e crude, come sosteneva l’accusa (Paul)? Quello dato alle stampe dopo la cura Spector — le sue impronte digitali erano ormai dappertutto — come obiettava la difesa (John)?

FU LA DEFLAGRAZIONE di un conflitto che proprio Let It Be svelò al mondo in Technicolor, con il film di Michael Lindsay-Hogg, making of ante litteram, che ne accompagnava l’uscita. Get Back, «torniamo alle origini», era stato il mantra di un McCartney che per scongiurare il divorzio aveva finito per accelerarlo. E lo stesso album, iperprodotto, gli si ritorse contro. «Lascia che sia»? Neanche per sogno. Trentatré anni dopo, Paul ripropose il corpo del reato in versione Naked: un restauro che era soprattutto restaurazione, per riprendersi la leadership perduta negli studi di Twickenham. Via le pleonastiche sovraincisioni di Spector, ma via anche il basso di Lennon in The Long And Winding Road, il brano più oltraggiato. Un’anteprima musicale della cancel culture.

A GILES MARTIN, figlio di George — la cui assenza in quel disco è pesantissima — l’onere di un ecumenico terzo grado di giudizio in versione deluxe. Quattro dischi, c’è spazio abbastanza per i due originali e nuove tracce inedite. A Peter Jackson, invece, il compito di rieditare 56 ore di girato escluse dal film di Lindsay-Hogg: il regista del Signore degli Anelli si è ritrovato con un altro kolossal, The Beatles: Get Back, docufilm di sei ore e vera perla dell’intera operazione (a fine novembre su Disney + in tre puntate). È qui che il détournement si sovrappone allo sguardo dell’inquirente, indicando nuovi significati per un flusso di suoni e immagini già noto. Il plot non cambia: la più grande band di sempre ripresa al lavoro, dalle prove al gran finale sul tetto di quella Apple che è già pomo della discordia. Ma per gli stessi Paul e Ringo il nuovo montaggio riporta alla luce la profonda amicizia che legava i quattro. O quanto meno, restituisce normalità ai loro scazzi.
I Beatles del presente guardano ai Fab Four del passato che cercano le loro radici nel trapassato: sembrerebbe il momento giusto per tirare le fila del racconto senza altri emendamenti. «Non possiamo cambiare la storia» ha detto Martin jr a McCartney durante l’ultimo mix. «Sì, ma puoi abbassare l’arpa in The Long and Winding Road?». Let it be, Paul, let it be…