Se a uno stato manca un’identità ben precisa, definitiva, come spesso accade è lo sport a fornirgliene una provvisoria, da sfoggiare con orgoglio alla prima occasione utile. L’orgoglio di indossare i colori per cui si è visto sanguinare i parenti più cari, arriva prima di ogni altra cosa: fu così per Guor Marial, il maratoneta di etnia Dinka che partecipò ai Giochi di Londra 2012: per lui e la sua storia commovente si spesero titoli di grande effetto. Da bambino i soldati sudanesi bruciarono la sua abitazione e uccisero otto dei suoi dieci fratelli, fu rapito dai nomadi e, in seguito, l’esercito lo fece diventare suo schiavo. Fino all’approdo e alla pace incontrata negli Stati Uniti, in Arizona, dove si trasferì. Da rifugiato, status che non gli permise, alle olimpiadi di due anni fa, di correre per la bandiera a stelle e strisce. Corse infatti sotto vessillo olimpico per la mancanza di un comitato nel suo paese. Il Cio gli pagò pure il volo da Flagstaff per permettergli di gareggiare e lui rispose: «Grazie di cuore, quello che mi sta capitando è incredibile, con l’aiuto di Dio voglio aiutare il mio paese».

Dio era sempre nelle parole e nei pensieri di Marial così come del portiere della nazionale sudsudanese Juma Jenaro Awad, che ad Alias affida una frase molto simile a quella del collega fondista ai tempi di Londra: «La speranza è che Dio mi aiuti a far conoscere il Sudan del Sud, a migliorarlo per quanto possibile con lo sport, a esserne un ambasciatore e un esempio positivo».

juma jenaro awad 1

La storia attuale di Juma è davvero particolare, perché la squadra di club che lo ha messo sotto contratto e per la quale deve difenderne i pali, è sudanese, l’al-Hilal di Omdurman, la più grande città dello stato posta sulla riva occidentale del Nilo, di fronte alla capitale Khartoum.

juma jenaro awad con al-hilal

E questo non significa certo giocare semplicemente all’estero ma essere cattolico in una squadra e in una società civile dal fortissimo retaggio islamico. Il Sud Sudan ha tanto combattuto per separarsene dopo un infinito conflitto civile che ha mietuto circa due milioni di vittime: «Ovviamente non è facile per me vivere qui: mi trovo in un posto che ha sempre discriminato la mia gente e continua a farlo – spiega Juma -. Essere cattolico da queste parti ti può portare all’emarginazione e a vivere in mezzo a tantissimi rischi, ma la mia fede è incrollabile, nessuno sarà in grado di farmi cambiare pensiero o addirittura di farmi convertire».

Un’indipendenza, quella da Khartoum, che significò molto, ma cosa esattamente? «Per me è un termine troppo importante – dice Juma -, che ha mille significati. Il primo a venirmi in mente è la fine del razzismo, che per troppo tempo abbiamo dovuto sopportare quando eravamo legati al Sudan», spiega l’estremo difensore, che prosegue: «Ora però il mio paese sta vivendo un altro momento molto triste e, purtroppo, nessuno sa quando finirà. Io soffro tantissimo, soprattutto per il fatto di non poter essere laggiù, insieme ai miei familiari…».

Non parla volentieri di etnie, anzi, cambia sistematicamente (e comprensibilmente, forse) argomento ogni qual volta ci si avvicini alla tematica: «In Sud Sudan siamo tutti uguali e questi scontri devono cessare immediatamente: alla gente comune nulla importa delle suddivisioni etniche». E qui Juma Jenaro Awad enuclea una grande verità, molto attuale in questi ultimi giorni di scontri: il carattere sempre più personale (mascherato da motivi etnici, che a loro volta ne mascherano di meramente economici) tra Salva Kiir e Riek Machar (quest’ultimo, peraltro, ha deciso di sfidare per l’ennesima volta l’attuale presidente anche alle presidenziali 2015). La società civile sarebbe ben disposta a tollerarsi nel nome di un Sud Sudan in cui regni la pace… «La storia delle etnie non ha senso – prosegue il giocatore ventottenne – ed è un peso insostenibile. Dobbiamo tornare alla mentalità di tre anni fa, dobbiamo essere un solo stato e una sola, unica, grande tribù».

A margine della dura vita di tutti i giorni ci sono i sogni nel cassetto, che nel calcio e nello sport in genere non tramontano mai, anche se manca poco ai trent’anni e come atleti non si è certo più di primo pelo. Continuare a crederci però non costa nulla, specie se si vive lontani, lontanissimi dal calcio che conta e dalla vita dorata che un pallone può significare dalle nostre parti: «Sogno un giorno di venire a giocare in Europa. Il mio idolo assoluto è Gigi Buffon, lo ritengo il miglior portiere al mondo, mi ispiro a lui quando gioco», confessa Juma con un briciolo di tenerezza.

La nazionale del Sud Sudan esordì il 10 luglio 2012 (un anno dopo la dichiarazione di indipendenza) nel match amichevole contro l’Uganda: finì 2-2 e la Bbc ci fece pure un docu-film, aiutata dall’allora mister Zoran Djordjevic, serbo giramondo sul modello del ben più noto collega connazionale Bora Milutinovic. Djordjevic portò ad esempio il Bangladesh a vincere la sua prima Coppa dell’Asia meridionale. Ci tiene ad allenare nei posti più poveri al mondo, come il Sud Sudan, per aiutarli a crescere attraverso il football, considerato unicamente come valore educativo. «Zoran e i suoi leoni africani», è così che gli inglesi chiamarono quell’importante documentario di calcio e umanità. E, ora che Zoran non è più il tecnico della nazionale, i leoni sudsudanesi stanno cercando anche sul campo la retta via: anzitutto, il mese scorso ha registrato il passaggio del primo turno di qualificazione alla prossima Coppa d’Africa per Nazioni, che si terrà a gennaio in Marocco. Ma, anche in questo caso, non tutto si è svolto in maniera ortodossa: il Sudan Meridionale ha infatti vinto a tavolino perché gli avversari non si sono presentati. Trattasi della nazionale eritrea e di un’altra storia complicata: la federazione di Asmara ha infatti deciso di ritirare la squadra già dalla fase preliminare della competizione senza addurre motivazione ufficiale ma col chiaro intento di evitare l’ennesima fuga di atleti all’estero, più volte verificatasi in passato: «Non è stato come giocare ma faremo una grande impresa se riuscissimo ad andare avanti fino alla fase finale. Sarà difficile – conclude Juma – ma il mio obiettivo e quello dei miei compagni è quello di migliorare il calcio del nostro paese e di esserne gli ambasciatori. Questo è ciò che conta».

Chissà come finirà nella doppia sfida col Mozambico, in programma il 18 e il  31 maggio prossimi. E se saranno proprio i «leoni africani» ad aiutare a far sì che la guerra allenti la sua morsa nella vita di tutti i giorni. Il calcio vive anche (e soprattutto) di queste utopie.